La ipertrofica firma apposta da Donald Trump al decreto che ha stabilito il trasferimento della sede dell’ambasciata americana a Gerusalemme ha sollevato timori, perplessità, ansie per il futuro e, prevedibilmente, la rabbia dei palestinesi e dei Paesi arabi. L’apparente incapacità di Trump di comprendere l’importanza dei simboli, specie laddove questi si inseriscono in equilibri precari e contesti incandescenti, può risultare incredibile, specie da parte di chi intende riaffermare la leadership muscolare statunitense. È solo questione di incompetenza, instabilità psicologica, bullismo, temperamento irascibile? O è la volontà di sviare l’attenzione dell’opinione pubblica nazionale e internazionale dal sempre più scottante caso dei rapporti fra collaboratori del presidente ed esponenti del governo russo che ha riacceso le luci su un possibile impeachment del presidente? O, invece, è parte di una strategia politica più complessiva che deve tenere assieme esigenza di costruzione del consenso interno e consolidamento della base elettorale, da un lato, e, dall’altro, riposizionamento della leadership americana a livello globale secondo termini nuovi e ancora non pienamente comprensibili?
Come la stampa ha ricordato in questi giorni, la decisione di Trump non fa che rendere efficace la legge approvata nel 1995 da un Congresso che vedeva l’ala più radicale del Partito repubblicano, guidata da Newt Gingrich, vittoriosa nelle elezioni di metà mandato del 1994. Pur avendo apposto la firma, Clinton e i presidenti successivi, sia George W. Bush sia Barack Obama, avevano congelato il trasferimento, rimandando di sei mesi in sei mesi il decreto applicativo. Cosa che, peraltro, aveva fatto anche Trump, pur di malavoglia, a giugno, su consiglio di Jared Kushner, nonostante le promesse avanzate in campagna elettorale. Cosa gli ha fatto cambiare idea? In parte, le pressioni che, secondo il “New York Times”, sono state esercitate da importanti finanziatori della campagna di Trump e del suo partito. In particolare, un ruolo chiave lo ha avuto Sheldon G. Adelson, che ha finanziato con 20 milioni di dollari un Political Action Committee pro-Trump nel 2016 e con un milione e mezzo di dollari il comitato che aveva il compito di organizzare la convention repubblicana di Cleveland. La decisione di Trump non è stata in realtà così improvvisa, visto che la questione era stata discussa all’interno del National Security Council già alla fine di novembre. Insoddisfatto dall’esito della riunione, alla ricerca di soluzioni «più creative», il presidente – dopo aver consultato alleati interni e leader internazionali e grazie al parere, questa volta positivo, dell’onnipresente genero, ma nonostante le riserve, non esplicitate, del segretario di Stato Tillerson e di quello della Difesa Mattis – ha deciso, la scorsa settimana, di dare l’annuncio di una svolta dal segno più politico che diplomatico.
Trump ha ancora una volta spiazzato gli osservatori e i membri dell’establishment di sicurezza, ma non è il loro consenso quello di cui ha bisogno in un momento in cui il Pew Research Center certifica la percentuale di gradimento più bassa ottenuta da un presidente non ancora giunto al termine del suo primo anno di presidenza (32%). Trump ha bisogno costantemente di certificare la sua credibilità non come presidente, ma come candidato portato alla vittoria da un elettorato che continua a esaltarlo come colui che spazza via le nebbie e i miasmi di una politica autoreferenziale, considerata non solo distante, ma nemica delle esigenze del «popolo». Molti dei suoi elettori a mala pena sanno dove si trova Gerusalemme e fanno fatica a distinguere Iraq, Egitto o Siria; non è questo ciò che a loro interessa. Quello che invece dà loro fiducia è il sentirsi rappresentati da un presidente che, riaggiornando con lo slogan America First, l’eccezionalismo del «credo americano», rilancia l’identità di «americani al 100%» contro tutti coloro che, all’interno come all’esterno, vorrebbero «provincializzarli».
Se il risentimento che Trump ha intercettato è quello di ceti soprattutto bianchi, che vivono nello “heartland” americano, quel risentimento non è frutto solo dell’impoverimento (reale e significativo, ma che certo, a partire dalla riforma fiscale approvata in Senato, non diminuirà, nonostante il ciclo economico favorevole), ma dello scarto fra la realtà delle loro condizioni sociali e la costruzione identitaria di un sogno americano che si fondava sull’equiparazione fra essere bianco ed essere di classe media. Una costruzione identitaria che ha plasmato il secolo americano e la proiezione globale del modello americano. La credibilità di Trump, del presidente che continua ad alimentare l’insorgenza populista e che vorrebbe plasmare la presidenza a sua immagine e somiglianza, rifiutandosi di assoggettarsi alle logiche istituzionali, deve essere giocata a tutto campo. L’immagine del leader che detta (apparentemente) le condizioni e non le subisce, che sembra riaffermare la capacità di presa di parola unilaterale degli Stati Uniti a prescindere da vincoli e costrizioni (comprese quelle conseguenti al reticolo di alleanze e rapporti di cooperazione) costituisce una risorsa politica che Trump vuole giocare soprattutto come strumento di empowerment nei confronti di quell’America «dimenticata» che lo ha eletto come suo portavoce («I am your voice», disse Trump in campagna elettorale). Non si spiega altrimenti perché, nella contestatissima campagna elettorale che si sta svolgendo in Alabama con un candidato repubblicano screditato dalle accuse di molestie sessuali anche nei riguardi di minorenni, ma fortemente sostenuto dal presidente, 6 donne bianche su 10 si esprimono in suo favore, ribadendo la loro fiducia e il loro appoggio (percentuale che ricalca il 53% di donne bianche che votarono Trump nel 2016).
Trump ha portato allo scoperto una tendenza che in realtà riguarda l’azione della presidenza quantomeno dagli anni Novanta, caratterizzata da uno scollamento – come ha osservato lo scienziato politico Stephen Skowronek – fra il tempo lungo della presidenza come istituzione e quello «corto» di una politica sempre meno capace di visione, per immergersi invece in un’azione micro-manageriale segnata dalla compressione scandita dai sondaggi e dalla comunicazione social.
È sperabile che Trump non sia il presidente che, come ha dichiarato lo stesso chairman del comitato senatoriale sulla politica estera, il repubblicano Bob Corker, rischia, con le sue improvvisazioni e bizzarrie, di condurre gli Stati Uniti verso la Terza guerra mondiale. Rimane però l’interrogativo sul ruolo che gli Stati Uniti vogliono ritagliarsi rispetto alla volontà di costituire ancora un punto di riferimento per la costruzione dell’ordine internazionale. Secondo John Ikenberry e Albert G. Milibank, Trump sta mettendo in discussione le categorie e i principi che avevano dato forma all’ordine liberale post-Seconda guerra mondiale – free trade, alleanze, multilateralismo, protezione ambientale, diritti umani –, rifiutando di sentirsi vincolato dalle decisioni e dagli obblighi assunti in passato (come nel caso del Trattato di Parigi e dell’accordo con l’Iran). L’analisi, fin troppo ottimistica, non tiene conto delle contraddizioni e delle aporie della recente politica estera americana, anche di quella che a parole si conformava alla visione dell’internazionalismo liberale, però tocca un punto cruciale. La micro-managerialità, se funziona poco bene in politica interna, appare, per la potenza leader mondiale, ancora più problematica in politica estera. La natura della potenza statunitense, sfidata ma non messa totalmente in discussione dai nuovi competitor (Cina in primis, nonostante la sua forza infrastrutturale), è tale che non può essere lasciata né all’improvvisazione né a una pura azione reattiva o legata alle contingenze del momento. E il disegno è ancora non solo oscuro, ma minacciosamente oscuro.
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