Torino ha un rapporto complesso con i grandi eventi. Spesso oscurata dall’ombra di Milano – o ossessionata dall’esserlo – la città oscilla fra un entusiasmo molto provinciale che vive ogni successo delle amministrazioni come una vittoria epocale, e un costante mugugno verso la cosa pubblica, che si alimenta della situazione disastrata delle casse comunali e del lento declino post-olimpico delle attività culturali e ricreative della città. Nel segno di questa bizzarra schizofrenia, che non sembra inquietare troppo i torinesi, è stato ad esempio accolto l’arrivo delle Atp Finals lo scorso novembre. 

Forse perché nel pieno degli ultimi ritocchi per l’accoglienza del gotha del tennis mondiale, in ottobre pochi – almeno in apparenza – hanno invece reagito, in positivo o in negativo, all’assegnazione alla città della 66a edizione dell’Eurovision Song Contest, che i nostalgici ancora chiamano «Eurofestival» e che si terrà il 10, 12 e 14 maggio prossimi al PalaOlimpico. Ancora meno si erano appassionati, nei mesi precedenti, alla lunga procedura di selezione, che aveva portato Torino in una shortlist di città rivali che includeva, all’ultima scrematura, anche Bologna, Pesaro, Rimini e l’odiata Milano. Solo alcune città in Italia, infatti, sono dotate di infrastrutture turistiche adeguate e di un palazzetto sufficientemente capiente per ospitare il pubblico, i media e le elaborate scenografie che sono la cifra dell'Eurovision. 

Passati diversi mesi, e giunti ormai alla vigilia, si ha l’impressione che molti in città non abbiano ancora capito esattamente di che si tratta e la reale portata dell’evento. Ancora a venti giorni dall’inizio del festival, con gli alberghi a prezzi stellari da mesi e i biglietti degli spettacoli andati completamente esauriti nel giro di un’ora, fa quasi tenerezza che «La Stampa» debba motivare i suoi lettori ricordando che l'Eurovision «somiglia tanto alla classica occasione da non lasciarsi sfuggire», «un momento per ritrovarsi e farsi scoprire di nuovo attraenti».

«Attraente» per milioni di persone in tutto il mondo (non solo in Europa: l'Eurovision è un cult anche in Australia, per dire) Torino lo era in realtà diventata nel momento stesso dell’annuncio dell’assegnazione. Quest’anno i Paesi coinvolti sono 40 (sarebbero stati 41, ma la Russia è stata esclusa: l'Eurovision rispecchia sempre la storia politica europea, nel bene e nel male) e ognuno di essi è arrivato in città con la sua numerosa delegazione e con artisti, giornalisti, diplomatici. La nutrita comunità globale che segue il festival e che popola blog, pagine social e una complessa rete di «fan community media» che non ha paragoni per varietà e fedeltà alla causa, si è prontamente data appuntamento. Gli alberghi – appunto – hanno registrato prenotazioni da record, con qualche polemica accessoria per una ricettività inadeguata, figlia anche della mancata comprensione della dimensione del tutto. Colleghi e amici da mezzo mondo – molti dei quali insospettabili – si sono avidamente informati su divani disponibili in quei giorni e su vie preferenziali per trovare i biglietti (se qualcuno pensa di scrivermi: i posti letto in casa mia sono terminati, e non ho trucchi per trovare i biglietti. Sono – appunto – esauriti). 

Questa disparità di percezione su quello che oggi è l’Eurovision, e la sostanziale indifferenza di buona parte d’Italia, ha radici complesse e affascinanti quanto la storia stessa della manifestazione, che si intreccia con le vicende politiche e culturali dell’Europa a partire dal secondo dopoguerra.

I Paesi coinvolti sono 40. Sarebbero stati 41, ma la Russia è stata esclusa: l'Eurovision rispecchia sempre la storia politica europea, nel bene e nel male

L’Eurovision song contest è nato nel 1956 per iniziativa dell’European Broadcasting Union (Ebu). Da poco istituito, l’ente federava allora appena sette Stati, con l’ambizione di progettare scambi di programmi dai rispettivi palinsesti – l’Eurovisione (quella del Te Deum di Charpentier) – e di implementare la condivisione di infrastrutture radiotelevisive, negli anni della ricostruzione postbellica. L’idea di un festival di canzoni venne, a quanto pare, dal primo direttore della Rai-Tv Sergio Pugliese, un ex dirigente dell’Eiar fascista. Il modello era naturalmente quello del Festival di Sanremo, varato nel 1951 e che a metà cinquanta era già il più importante evento dei palinsesti radio e tv. La proposta fu accettata e l’Eurovision – o Eurofestival, o Eurosong, o Grand Prix Eurovision de la Chanson, a seconda del Paese – decollò rapidamente.

Nei primi anni l’Italia ne fu azionista di maggioranza: la prima vittoria è del 1964 con Non ho l’età di Gigliola Cinquetti, una hit compiutamente europea, amata da italiani e non, e al centro, come molti brani del periodo, della costruzione identitaria della diaspora italiana in Europa (recuperate il bel documentario Non ho l’età del regista svizzero Olmo Cerri, uscito nel 2017).  Dal 1980, in corrispondenza anche del rilancio del Festival di Sanremo sulle scene internazionali, cominciò invece il lento disinteresse della Rai, con poche e sporadiche partecipazioni interrotte solo, nel 1990, dalla seconda vittoria italiana grazie a Toto Cotugno e alla sua (non memorabile) Insieme:1992: «L'Europa non è lontana / C'è una canzone italiana per voi / Insieme, unite, unite / Europe».

Insieme: 1992 fu salutata da alcuni dei giornalisti presenti come una specie di nuovo inno continentale (il 1992 evocato al futuro è infatti l’anno del Trattato di Maastricht e della nascita dell’Unione europea). Non dagli italiani, che in effetti – racconta il giornalista Emanuele Lombardini nel suo Eurovisioni – disertarono quell’edizione: solo all’ultimo l'Ansa fu costretta a inviare un proprio cronista a Zagabria, dal vicino Friuli, per coprire la vittoria di Cutugno. Per il resto la Rai fece di tutto per ignorare la manifestazione.

Il regolamento dell'Eurovision prevede che il vincitore ospiti la manifestazione l’anno successivo, una circostanza che ha sempre terrorizzato la tv di Stato italiana. L’edizione del 1991, organizzata in fretta e furia a Cinecittà, viene in effetti ricordata da molti testimoni come una delle peggiori, con un’orchestra di turnisti free-lance messa insieme all’ultimo, l’assenza di conduzione in una lingua diversa dall’italiano e vari aneddoti imbarazzanti. Da lì in poi, nonostante qualche partecipazione (Enrico Ruggeri, Mia Martini, i Jalisse) la Rai è andata fino in fondo nella sua exit strategy, che diviene definitiva a partire dal 1998. Nel 2003, addirittura, i diritti vengono ceduti a Gay.tv, che registra nell’occasione, pare, 5 milioni di contatti, dimostrando che esiste eccome, pure in Italia, un pubblico per l’Eurovision. Anche perché, intanto, il festival sta diventando qualcosa di diverso: un evento-kolossal sempre più internazionale, grazie all’ingresso di nuovi concorrenti dalla ex Jugoslavia e dall’ex blocco sovietico, e un palcoscenico sempre più globalizzato per «performare» nuove identità, nazionali o di genere che siano: l’Italia rientra nel 2011, ma nell’immaginario collettivo uno dei momenti che più è rimasto impresso nell’ultimo decennio è probabilmente la vittoria della drag queen Conchita Wurst nel 2014. Almeno, fino ai Måneskin.

La storia della popular music raccontata attraverso l'Eurovision è una storia particolarmente eccentrica, nel senso sia di "sgargiante", come le sue scenografie e i costumi, sia di "periferica"

La storia della popular music raccontata attraverso l’Eurovision è però una storia particolarmente eccentrica, sia nel senso di «sgargiante», come le sue scenografie e i costumi, sia in quello di «periferica». Chi volesse ricercare hit globali passate per il festival rimarrebbe almeno in parte deluso. Con l’eccezione di Waterloo degli Abba che vinse nel 1974 (davanti a di Gigliola Cinquetti, unica italiana a partecipare due volte) e di pochi altri brani, l’Eurovision è perlopiù popolato da divi nazionali e da meteore: personaggi idolatrati fino al confine, o bizzarrie kitsch da mandare allo sbaraglio per il tempo di una canzone. La Gran Bretagna, per dire, che ha dettato le regole del gusto pop in Europa, lo ha perlopiù tollerato come guilty pleasure, con scarsi successi e pochi investimenti.

Eppure, tutto fa pensare che l’Eurovision diventerà sempre più grande. Gli Usa stanno cercando di imitarne il format. L’operazione tentata nel 2020 dalla commedia Netfix Eurovision Song Contest: The Story of Fire Saga, con Will Ferrell e Rachel McAdams, è solo una delle prove di un nuovo interesse, anche economico, verso la manifestazione. Spotify sta ridisegnando le geografie dell’industria musicale globale: il caso dei Måneskin – passati da X Factor a Sanremo, all’Eurovision, per approdare al Coachella – lo racconta benissimo. Sempre più spesso quello che prima era solo periferia, arriva al centro. L’edizione del 2022, che torna in Italia con ampi investimenti della Rai, sarà forse un nuovo inizio per la manifestazione anche nel nostro Paese.

Intanto, a Torino stanno attaccando un po’ dappertutto le bandierine colorate dell'Eurovision. I primi turisti primaverili cominciano a farsi i selfie, mentre le prime delegazioni internazionali si manifestano sotto i portici del centro, chiassose e festanti.

 

[In occasione dell'Eurovision Song Contest, l’Università di Torino organizza una serie di eventi nell’ambito del cartellone di UniVerso].