Si è conclusa la vicenda senza precedenti di un presidente degli Stati Uniti sottoposto a procedura di impeachment due volte in quattro anni e due volte assolto. Per quanto destinato all’insuccesso, ai democratici e a un numero minoritario di repubblicani, è parso che non processare un presidente golpista lasciasse un marchio di debolezza sulle istituzioni democratiche e incoraggiasse la ripetizione di un attacco simile. Tuttavia anche tra diversi democratici esistevano dubbi sulla possibilità che il processo fosse controproducente: l’assoluzione avrebbe rilegittimato Trump e i repubblicani avrebbero attenuato i loro conflitti in difesa del partito e del loro presidente, ancora popolare nel loro elettorato e in molta della loro classe politica. Tra i democratici dubbiosi, lo stesso presidente Biden, che ha bisogno che le sue proposte non siano oscurate dall’enorme capacità di Trump di occupare spazio mediologico.
Ma in questi giorni nelle principali stazioni televisive l’attenzione si concentra sul Partito repubblicano, le sue divisioni, il persistente, il ruolo di Trump nella mobilitazione dei votanti, i costi politici ed elettorali di un suo tramonto.
Il partito è stato impegnato a salvare la propria unità, di cui, l’assoluzione di Trump, è solo l’ultima più importante manifestazione. I repubblicani hanno così confermato il peso congressuale di Liz Cheney, terza carica repubblicana alla Camera, malgrado abbia votato a favore dell’impeachment, sia stata duramente criticata dalla maggioranza e censurata nel suo Stato del Wyoming. Sul lato opposto nella scala dei valori, la grande maggioranza dei repubblicani della Camera ha votato di mantenere i compiti congressuali di Marjorie Taylor Greene, la rappresentante della Georgia aderente alla setta di QAnon, favorevole alla violenza contro certi democratici e convinta che l’attacco alle torri di New York e le sparatorie nelle scuole erano solo invenzioni. La Taylor Greene ha ripudiato le proprie passate posizioni ma il sostegno repubblicano è stato motivato dal fatto senza precedenti che i membri di un partito (i democratici) mettano in discussione le decisioni dell’altro sulle commissioni congressuali a cui assegnare un proprio membro.
Trump ha celebrato la vittoria dicendo che «il nostro storico, patriottico e magnifico movimento per Make America Great Again è appena cominciato». Il Paese è punteggiato di partiti statali che gli promettono fedeltà, censurano i dissidenti e sostengono che le divergenze sono superficiali, la base e il vertice del partito restano saldamente trumpiani.
La questione è soprattutto elettorale. Entrambi i partiti pensano già alle elezioni intermedie del 2022, spesso sfavorevoli al presidente in carica, e, poiché le maggioranze congressuali sono molto smilze, è cominciata la battaglia per mantenere, allargare o riconquistare il controllo del Congresso. Il potente senatore Lindsey Graham della South Carolina si è distinto come alleato di punta di Trump, sostenendo che solo se Donald è alla testa dei repubblicani, questi hanno speranza di riconquistare il Congresso. Dei sette senatori repubblicani dissidenti solo uno deve affrontare la rielezione nel 2022 (alle intermedie si rinnova tutta la Camera e un terzo del Senato), gli altri hanno più tempo o stanno andando in pensione. La quasi inesistente dissidenza alla Camera è largamente dovuta anche al fatto che tutti i deputati sono sotto rielezione e temono le vendette elettorali di Trump che, in caso di critica, opponga loro alle primarie repubblicane un trumpiano di stretta osservanza. Ad esempio, Lara Trump in Georgia, nuora di Donald, candidata al posto del senatore dissidente che va in pensione.
Ma anche tra i trumpiani vi sono significative differenze: Graham e Kevin McCarthy, leader della minoranza repubblicana alla Camera, che in piena invasione chiese a Trump un immediato intervento conciliativo che il presidente rifiutò, fanno sì grandi profferte di trumpismo, «Trump è il membro più dinamico del Partito repubblicano» dice il primo, ma premono perché Donald, malgrado che sia «furioso con una serie di persone», guidi il partito nella sua interezza e non scateni una guerra fratricida. Nonostante i tentativi mimetici, lo scontro nel partito è profondo e parte dell’establishment ritiene che gli ultimi giorni di Trump abbiano fatto un gran male ai repubblicani.
Qui il personaggio strategico è il potentissimo ex leader della maggioranza (ora minoranza) repubblicana in Senato, Mitch McConnell. Prima uno stretto alleato di Trump, McConnell, per non marginalizzarsi nel partito, ha votato l’assoluzione causa la presunta incostituzionalità dell’impeachment di un presidente scaduto. Subito dopo tuttavia si è lanciato in un violentissimo attacco contro l’ex presidente, il quale «è praticamente e moralmente responsabile di aver provocato gli eventi di quel giorno». E ha rincarato la dose: «Non è affatto vero che (Trump) l’abbia scampata. Abbiamo un sistema di giustizia criminale e uno di controversia civile. E gli ex presidenti non sono affatto immuni dalle loro responsabilità di fronte a ognuno di essi». È la tesi condivisa da diversi democratici e critici repubblicani che dice che, invece della strada controproducente dell’impeachment, Trump potrebbe lentamente tramontare sotto il cumulo di cause civili, finanziarie e penali già in corso.
Quanti congressisti repubblicani rappresenta McConnell? Finora la risposta è solo indiziaria e in rapido cambiamento. Ad esempio, è eclatante il silenzio dell’ex vicepresidente Mike Pence, che, divenuto il traditore numero uno per non aver capovolto il risultato elettorale in Congresso (sarebbe stato un vero colpo di Stato!), e che alcuni degli invasori volevano linciare, è in tacito dissenso. Pare che qualche decina di migliaia di aderenti stia lasciando il partito e diversi media lamentano che moltissimi senatori innocentisti rifiutano di dare interviste sugli avvenimenti del 6 gennaio, rifugiandosi nell’eccezione di incostituzionalità. E l’accusa di un voto che ha avallato il suprematismo bianco del presidente ne mette parecchi in imbarazzo. La stessa presa di Trump sull’elettorato è in discussione: secondo il «Wall Street Journal» l’83% dei repubblicani pensa che Trump sia innocente, ma quelli che lo vogliono candidato presidenziale nel 2024 sono il 50% circa.
Tuttavia, il compito dei pontieri trumpiani che favorisce un continuato ruolo di primo piano di Trump in un partito tuttavia articolato, che attenua le vocazioni antidemocratiche, ed evita la guerra intestina, sembra davvero improbo. Nelle quarantott’ore successive all’assoluzione, Trump ha rilasciato una dichiarazione violentissima contro McConnell: «Mitch è un politico cupo, scontroso e senza sorrisi, e se i senatori repubblicani rimarranno con lui, non vinceranno più, perché lui non farà niente di quello che va fatto, o che è giusto per il Paese».
È uno scontro di corazzate che interagisce con l’atteggiamento verso l’invasione del Campidoglio, molti congressisti repubblicani favoriscono una strategia «dell’amnesia» : andare rapidamente oltre senza moltiplicare arresti e processi contro gli invasori, oltre quelli già in corso. Lo stesso Biden ha chiesto di non parlare più di Trump e ha bisogno anche di voti repubblicani per fare approvare le sue proposte, in un tentativo di recupero della bipartisanship. Dall’altra parte la «linea Pelosi» che ha annunciato una commissione indipendente di inchiesta sul 6 gennaio come occasione di scontro politico, è implicitamente speculare alla determinazione di Trump di ribadire l’esemplarità del suo comportamento in quella occasione.
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