Il Partito democratico sta avviando, molto lentamente, le procedure per l’elezione del nuovo segretario. Tutto lascia presagire che la competizione si concentrerà sulla figura dei candidati: certo, questi dovranno presentare una piattaforma, ma quanti veramente vi presteranno una qualche attenzione? Anche queste prime settimane di pre-tattica mostrano che altre saranno le logiche prevalenti, non certo quella di una vera discussione politica sul futuro assetto e sul ruolo di questo partito. Nelle settimane scorse, a dire il vero, si era levata qualche voce che evocava la necessità di un vero congresso, ossia un percorso che non si riducesse alla contesa tra i candidati. Massimo Cacciari, ad esempio, ha messo apertamente sotto accusa le primarie. Ma svolgere un vero congresso avrebbe richiesto quanto meno una sospensione delle attuali regole: nessuno ha posto per tempo, e con nettezza, questo problema.
Una tale vicenda mostra quanto poco e male si discuta, nel Pd, della forma organizzativa del partito, del modello di democrazia interna a cui si ispira, e delle logiche che ne informano le dinamiche interne di potereNei giorni scorsi è accaduto un piccolo episodio, a cui è stata riservata sulla stampa una distratta attenzione: eppure, è una vicenda che dice molte cose sullo stato del Pd e sui dilemmi che si trova di fronte. È accaduto che la commissione Statuto del partito si riunisse e che all’ordine del giorno avesse alcune possibili modifiche dello Statuto stesso: in particolare, il superamento di un pilastro dell’identità originaria del Pd, ovvero la coincidenza tra la figura del segretario e quella del candidato-premier, cardine dell’idea di un partito a «vocazione maggioritaria». Appena questa possibilità è stata fatta trapelare, si è assistito a una levata di scudi dei maggiori interpreti e scudieri dell’ortodossia, esponenti dell’area renziana del partito. La commissione ha così dovuto prendere atto che non c’erano le condizioni politiche per questa modifica, rimandando tutto alle proposte che, eventualmente, potranno fare i vari candidati. Ora, si può anche considerare ragionevole questo rinvio, e peraltro un po’ improvvido aver pensato di discutere una tale questione, di portata altamente simbolica per l’identità del Pd, un po’ alla chetichella, alla vigilia del «congresso» (tra virgolette, perché, è bene ricordarlo, il termine non ricorre nemmeno nello Statuto). Ma il punto è che una tale vicenda mostra, ancora una volta, quanto poco e male si discuta, nel Pd, della forma organizzativa del partito, del modello di democrazia interna a cui si ispira, e delle logiche che ne informano le dinamiche interne di potere.
Il Pd, in effetti, sembra intrappolato nel suo stesso impianto fondativo, prigioniero di un dilemma che può essere formulato ricorrendo a una sorta di parafrasi del famoso «comma 22»: per poter cambiare e rinnovarsi, il Pd avrebbe bisogno di azzerare le regole che oggi governano la sua vita interna; ma per cambiare le regole, occorre che siano gli attuali organismi dirigenti ad assumere questa iniziativa – organismi al cui interno, a loro volta, si esercitano tuttora (e prevedibilmente si eserciteranno ancora in futuro) i poteri di veto di quanti non hanno alcun interesse a cambiare le regole del gioco, o che comunque sembrano «ideologicamente» legati all’identità originaria del partito (benché questa abbia mostrato non poche crepe e défaillances).
Come che sia, un radicale ripensamento sul modello di partito adottato e praticato dal Pd è un compito ineludibile, per coloro che pensano ancora o sperano che il Pd possa avere un futuro. Quello che non si comprende a sufficienza è la profonda distorsione che è nata dall’idea stessa del partito aperto, di un partito cioè che chiama a decidere sulla propria massima carica politica un corpo indifferenziato di cittadini. Sin dall’inizio, e poi con il passare degli anni, questa logica ha svuotato il senso stesso dell’appartenenza al partito: non esiste un corpo sovrano che possa discutere e decidere sulle proprie scelte. E si è rivelata solo un’illusione pensare che, in tal modo, aprendo il partito al primo che passa, si produca una qualche sorta di democratizzazione: al contrario, la logica è quella della disintermediazione, e a prevalere è l’idea plebiscitaria di una connessione diretta tra il leader e il suo popolo (nel nostro caso, il popolo delle primarie). Per cambiare le regole occorre che siano gli attuali organismi dirigenti ad assumere questa iniziativa – organismi al cui interno, a loro volta, si esercitano tuttora i poteri di veto di quanti non hanno alcun interesse a cambiare le regole del gioco, o che comunque sembrano "ideologicamente" legati all’identità originaria del partito, benché questa abbia mostrato non poche crepe e défaillances
Basti pensare all’assurdità di una procedura che affida agli iscritti un solo, miserrimo compito: effettuare una prima scrematura tra i candidati. L’elezione del segretario è poi affidata alla partecipazione di un corpo indefinito di elettori, che si costituisce nell’atto stesso in cui si esprime il voto. Un corpo sovrano che si materializza in modo istantaneo, che non pre-esiste al voto, ma che nemmeno gli sopravvive: svolge il suo mandato e poi svanisce. In tal modo, peraltro, si innestano altri meccanismi perversi: vince chi riesce ad attivare le maggiori risorse esterne, e ad alimentare una vera e propria circolazione extra-corporea. E non a caso, anche nelle cronache politiche e nei conciliaboli, vi è una parossistica attenzione ai posizionamenti di questo o quel dirigente, di questo o quel notabile locale: capi-filiera che, a cascata, mobilitano i propri sostenitori per spingerli ai gazebo. Una logica pienamente coerente con il modello di partito in franchising, che ha segnato la vita del Pd sin dall’inizio.
Riusciranno a emergere questi temi e problemi nel corso del processo che porterà all’elezione del nuovo segretario? Non lo sappiamo; temiamo anzi che il dilemma in cui si trova imprigionato il Pd possa rivelarsi irresolubile: forse occorrerebbe un novello Barone di Münchhausen, capace di tirarsi su dalla palude aggrappandosi al codino dei propri stessi capelli!
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