Il caso dei lavori del Parlamento italiano durante il Coronavirus rappresenta, credo, un unicum. Mentre alcuni governi hanno approfittato della situazione emergenziale per espandereoltre misura i loro poteri (fino agli estremi di Polonia e Ungheria), il caso di un’autoemarginazione voluta e ripetuta oltre ogni limite di ragionevolezza era difficile da immaginare.
Difficile, infatti, scaricare le responsabilità sul nostro esecutivo. Quand’anche esso abbia commesso, come tutti i governi, nazionali e regionali, alcuni errori, con qualche pressappochismo sul sistema delle fonti – a partire da un eccesso degli ormai famosi Dpcm rispetto ai decreti-legge – e quand’anche ci siano ostacoli peculiari oggettivi come il bicameralismo paritario, resta il fatto che i decreti-legge vanno convertiti, che è possibile emendarli, specie in Commissione, e che dentro gli emendamenti alle leggi di conversione è possibile anche inserire i contenuti emersi come problematici se affidati ai Dpcm.
Che l’adattamento burocratico delle regole tradizionali (autoriduzione in proporzione dei componenti in Aula e in Commissione, voto da postazioni originali come le tribune ecc.) avrebbe portato a una sostanziale autoemarginazione, con una ratifica secca delle volontà del governo, era un dato del tutto prevedibile e direi quasi scontato. La domanda di fondo è allora perché questo esito si sia prodotto, anche e soprattutto per evitare errori simili nel futuro.
Una prima risposta potrebbe consistere nell’idea che vi fossero ostacoli normativi insuperabili. Qui però le due principali linee di difesa si sono rivelate sin da subito quanto mai discutibili (come dimostrano gli ampi interventi di Adinolfi, Clementi, Curreri, Fusaro, Melzi d’Eril-Vigevani raccolti nel quaderno n. 5 della Fondazione Per). Mi limito in questa sede a una sintesi per slittare poi rapidamente dalle motivazioni alla ricerca delle responsabilità.
Pietrificare il significato della presenza prevista dall’articolo 64 alla volontà originaria della Costituzione è un’operazione che stride con qualsiasi tecnica interpretativa raffinata del testo costituzionale, con le prassi accumulatesi tradizionalmente – come un tempo quella sugli astenuti alla Camera o oggi quella sui parlamentari considerati in missione – e contro altre innovazioni accolte per necessità nella medesima emergenza – come la presentazione di tutti gli atti parlamentari esclusivamente per i canali elettronici. Un’altra argomentazione, più sofisticata, elaborata anche per rispondere all’iniziativa pilota del Parlamento europeo di marzo ritenendola come non assimilabile, ha fatto invece perno su un’idea forte di rappresentanza nazionale, così forte da rendere necessaria la presenza fisica per rendere appunto presente tramite il rappresentante i cittadini rappresentati in tutta la fisicità possibile.
Questa linea è però obiettivamente franata sotto il successivo esempio di Westminster ad aprile: per quanto gli inglesi siano sempre restii a costruire teorie generali, appare difficile negare che sette secoli di esperienza non conferiscano a Westminster un certo ruolo nel forgiare il concetto di rappresentanza. In ogni caso la norma fondamentale del diritto parlamentare, come sappiamo, è “nemine contradicente” e consente di disapplicare grazie all’autonomia normativa anche norme scritte, figurarsi l’interpretazione di un aggettivo generico della Costituzione o teorie astratte sulla rappresentanza.
Non si è trattato quindi di un difetto formale, di una resa a ostacoli formalistici insuperabili, in una sede tradizionalmente pronta a svincolarsene, ma di un difetto squisitamente politico.
Comunque per superare gli ostacoli veri, come il bicameralismo ripetitivo, che in emergenza danneggiano ancor più la rappresentanza, con spettacoli paradossali quali il presidente del Consiglio chiamato a pronunciare anche in emergenza lo stesso intervento alle due plenarie semi-vuote, ho depositato un progetto di legge costituzionale per le prossime emergenze.
Chiusa questa parentesi, e risolta pro futuro anche la limitata parte di verità delle obiezioni formali, torniamo quindi alla questione delle responsabilità. Essa non può essere scaricata sulla burocrazia delle Camere, che sarebbe la risposta più immediata possibile, ma non di meno erronea. Da che mondo è mondo gli apparati burocratici non amano le innovazioni, specie quelle radicali, ma nessuno chiede loro il permesso di crearle; caso mai, dopo aver preso la decisione nella sede politica, ad essi si chiedono i migliori consigli sul come perseguirli. Non è invece normale che la politica abdichi alle decisioni di indirizzo, alle scelte sul se perseguirle, per delegarle a chi deve essere rilevante solo nel come attuarle.
Qui vengono in gioco due debolezze particolari. La prima è indubbiamente delle presidenze di Assemblea. Con la passata legislatura si è conclusa l’anomalia dei leader di minoranza della maggioranza alla guida della Camera dei deputati, figlia anche dei grandi poteri sulla programmazione della riforma Violante della legislatura 1996-2001. Questo però non può portare con sé la rinuncia a un ruolo di garanzia dell’istituzione nel senso forte del termine, che richiede anche l’assunzione di responsabilità di impulso all’innovazione. Altrimenti la funzione dei presidenti appare ora come di mera ratifica delle decisioni della propria maggioranza (ove compatta, come accaduto ad esempio in materia di ammissibilità di emendamenti sulle riforme costituzionali, ristretti come non mai a una sorta di microchirurgia, più micro che chirurgia), ora delle burocrazie interne (in assenza di un’indicazione politica della maggioranza medesima).
La seconda, ancor più paradossale, è quella dell’opposizione parlamentare. Ora, se ci sono dei parlamentari che avrebbero il diritto-dovere di battersi contro l’autoemarginazione del Parlamento, essi dovrebbero essere anzitutto quelli dei gruppi di opposizione parlamentare dato che quelli di maggioranza possono comunque contare su una relativa vicinanza al governo. Ciò però non è avvenuto. Non solo non se ne trova traccia nelle varie iniziative assunte per chiedere le modalità innovative di voto e di presenza che sono state assunte da vari deputati di gruppi di maggioranza, ma la cosa più sconcertante sono state le modalità con cui è avvenuto il più grave strappo alle regole perpetrato durante l’emergenza e sin qui mai capitato. Al Senato, in sede di conversione del decreto legge Cura Italia, proprio su richiesta di un capogruppo dell’opposizione – accolta dagli altri capigruppo, al fine di consentire il più rapido rientro a casa dei senatori – le dichiarazioni di voto e le stesse votazioni sulla fiducia si sono svolte senza che fosse stato definito il testo del maxi emendamento, e quindi senza che il governo avesse formalizzato la posizione della fiducia (che riguarda sempre un ben preciso testo di legge), tanto che la presidente Casellati non ha potuto evitare di scusarsi esplicitamente per quanto accaduto. Con l’aggravante ulteriore che il testo del maxi emendamento è stato ulteriormente modificato, dopo il voto di fiducia, addirittura fino al giorno successivo!
Con tutta evidenza nei gruppi di opposizione è prevalsa una cultura politica che vede come luogo praticamente esclusivo della loro azione i social e i talk, essendo indisponibili sotto emergenza le piazze. Un’involuzione impressionante, evidenziata anche dalle classiche assenze dei leader dell’attuale opposizione dalle aule parlamentari.
Due debolezze che l’emergenza non ha creato, ma che sotto stress si sono palesate con tutta evidenza e che dopo l’emergenza sono, almeno per una certa fase, destinate purtroppo a durare, rivelando che in Italia, a differenza di altri Paesi, sono deboli entrambe le variabili dell’ordinamento: sia i partiti sia alcune importanti istituzioni.
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