Nel 2019 il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione oggetto di molte, dure discussioni. La sostanza: la Seconda guerra mondiale scaturisce dal Patto Molotov-Ribbentrop del 1939, cioè dalla spartizione tedesco-sovietica della Polonia. Il primo settembre di quell’anno la Germania hitleriana, proprio sulla base di quegli accordi, invase la parte occidentale del Paese. L’Unione sovietica, due settimane più tardi, irruppe in quella orientale. Una parte delle terre occupate, l’attuale fascia occidentale bielorussa e ucraina, sarebbe stata in seguito formalmente annessa.
Storicamente, la risoluzione del 2019 è discutibile. Molti studiosi hanno messo in luce che l’aspetto innaturale dell’equiparazione tra responsabilità del nazismo e dello stalinismo per lo scoppio del secondo conflitto mondiale. Questo perché l’Unione sovietica offrì un enorme contributo alla vittoria su Hitler e ispirò molte resistenze europee.
Non solo: nei Paesi che finirono con gli accordi di Yalta sotto l’influenza sovietica fu inizialmente visto come un modello cui tendere. Ci fu un certo consenso, oggettivo, nei confronti dei nuovi regimi. Lo dimostrano anche i sogni infranti della rivoluzione ungherese del 1956 e della primavera di Praga del 1968. Schiacciate, entrambe, dai carri armati del Patto di Varsavia. Ma entrambe promotrici di un rinnovamento del comunismo, più che di un suo smantellamento. Tanto Imre Nagy in Ungheria, quanto Alekander Dubcek in Cecoslovacchia, promossero una cura ricostituente, introducendo riforme libertarie nella stampa, nell’economia e nell’istruzione, forti di una base di sostegno popolare. Poi sì: il progetto comunista naufragò definitivamente. Si esaurì ogni «spinta propulsiva», iniziò la stagnazione, tutti smisero di crederci.
Il 1989 ha scoperchiato il rimosso che caratterizzò l’epoca comunista nell’Europa centro-orientale. Si poté finalmente parlare di molti tabù. In Polonia si iniziò a toccare il tema dell’eccidio di Katyn del 1940, ossia dello sterminio da parte sovietica di 40mila polacchi, tra graduati dell’esercito e intellettuali: un tentativo di decimare l’élite politica, militare e culturale di Varsavia. In Ungheria il discorso si focalizzò sulle condanne a morte del primo dopoguerra e sugli stupri compiuti dai soldati sovietici durante l’assedio di Budapest. Al rimosso di epoca sovietica si sostituì il rimosso di epoca post-’89: fu dimenticato il consenso che il comunismo, in certi periodi della Guerra fredda, aveva avuto a Est. Ma tant’è.
La «vecchia» Europa aveva già preso atto della sofferenze – oggettive e tragiche, senza dubbio – imposte dal dominio russo-sovietico ai Paesi un tempo oltre l’ex cortina di ferro, da ben prima della risoluzione del 2019. Nel 2008 l’Unione europea introdusse infatti la Giornata del ricordo delle vittime del nazismo e del comunismo, che cade ogni 23 di agosto. C’era bisogno della risoluzione del 2019? Probabilmente, no. Ma la sua genesi non sta nell’interpretazione della storia. Piuttosto, è la separazione definitiva tra le traiettorie dell’Europa e della Russia a rappresentare il fattore fondante.
La genesi della risoluzione del 2019 non sta nell’interpretazione della storia. Il fattore fondante è invece la separazione definitiva tra le traiettorie dell’Europa e della Russia
L’annessione della Crimea e l’inizio della guerra nel Donbass, nel 2014, hanno segnato un punto di non ritorno per i due polmoni dell’odierna Europa. Il sequestro con la forza di pezzi di terra ucraina ha rappresentato per i Paesi di più recente ingresso la conferma della continuità storica dell’imperialismo russo-sovietico. Parallelamente, nell’Europa pre-allargamento, ha portato al collasso del matrimonio di interessi che aveva scandito le relazioni con la Russia di Putin: economie aperte, scambi commerciali, investimenti, energia. Ci si è accorti, tra Parigi, Londra, Berlino e Roma (forse qui in misura minore che altrove), che anche una relazione pragmatica, guidata da ragionamenti economici, non può prescindere da valori condivisi. La china sempre più autoritaria e militarista su cui si è spinta la «democrazia sovrana» russa ha fatto saltare questo schema, portando al fallimento dei tentativi di mediazione e ricucitura portati avanti in questi anni da Emmanuel Macron e Angela Merkel.
La risoluzione del Parlamento europeo del 2019 non appare dunque come un’ulteriore presa di coscienza sulle sofferenze imposte da Mosca all’Europa centro-orientale nel lungo periodo 1939-1991, ma come una denuncia, attualizzata, dello storico revanscismo russo-sovietico. Una minaccia alla quale, dopo gli strappi ucraini del 2014, si è risposto con una maggiore presenza Nato sul fianco orientale dell’alleanza, che coincide con quello dell’Unione, e con il sostegno crescente – economico, politico e militare – alla volontà di decolonizzazione espressa dagli ucraini.
Oggi la nuova prova di forza russa in Ucraina, una guerra su larga scala, condotta con violenza spaventosa, serra le file dell’Europa e dello spazio atlantico, che in questi anni aveva accusato sfilacciamenti vari. Donald Trump aveva messo in discussione l’utilità della Nato. Emmanuel Macron, dal canto suo, l’aveva dichiarata «cerebralmente morta». La Polonia di Jaroslaw Kaczynski e Mateusz Morawiecki, seguendo il vento del neo-populismo, ha cercato un rapporto esclusivo con la potenza militare americana, più che con l’Alleanza atlantica. Oltre a questo, ha scatenato una politica di continua provocazione nei confronti delle istituzioni europee e della Germania, senza contare le furiose spallate allo stato di diritto, linfa e sale dell’europeismo. Un tradimento, se vogliamo, della sua missione democratica nel tardo Novecento e nei primi anni Duemila. La Polonia, con Solidarnosc, fu culla dell’opposizione civile di massa al comunismo; fonte delle transizioni patteggiate del 1989; modello virtuoso dell’allargamento a Est dell’Unione nel 2004 operato dalla Commissione Prodi.
Il blocco euro-atlantico deve nascondere le sue crepe se vuole rispondere alla minaccia portata da Putin e limitare il malcontento sociale che si genererà con gli effetti delle sanzioni a Mosca
Con la sfida lanciata da Putin, la Polonia – da spina nel fianco che era – è diventata risorsa fondamentale, in quanto porta d’ingresso per i rifornimenti militari all’Ucraina e per i profughi ucraini che lasciano le loro case. I deragliamenti di questi anni, compreso il trattamento degradante dei migranti al confine con la Bielorussia, sono stati accantonati. Il blocco euro-atlantico deve nascondere le sue crepe, se vuole rispondere alla minaccia portata da Putin e limitare il malcontento sociale che verrà inevitabilmente a generarsi per gli effetti delle sanzioni a Mosca: tante aziende e tanti cittadini ne stanno già patendo le conseguenze.
La questione democratica in Polonia (come in Ungheria), andrà però riaffrontata, una volta che il conflitto in Ucraina terminerà, con quali esiti e quali tempi non è dato sapere. Ugualmente, andranno presi finalmente di petto i nodi interni dell’Ucraina, ora tralasciati a causa della resistenza esistenziale condotta da Kiev. La corruzione, il cattivo funzionamento dello Stato, la giustizia inefficace, lo spazio eccessivo dato all’estremismo di destra, le misure punitive, anch’esse eccessive, verso i partiti ritenuti filorussi: tante le cose che non vanno, nell’ex repubblica sovietica.
La sfida con Mosca non è solo politico-militare. È anche un discorso di democrazia. Il Cremlino la rinnega e la teme. L’Europa, se vuole reggere e continuare a lasciare un segno nel mondo, non può e non deve farne a meno: tanto al suo interno, quanto nel pretendere che l’Ucraina assorba con convinzione le regole del gioco democratico.
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