Giovani? No grazie. L’Italia non sa proprio che farsene. Siamo uno dei Paesi al mondo che maggiormente ha ridotto la produzione quantitativa di nuove generazioni. Eppure “giovane” ha la stessa radice del verbo latino “iuvare”, richiama il concetto di essere utile, di giovare alla società, di essere profittevole per il bene comune. Cosa fa invece una società che li considera inutili? Ne fa pochi e quelli che ci sono li mette da parte o li incentiva ad andarsene. Che ne facciamo pochi è un dato di fatto. La denatalità degli ultimi trent’anni ha prodotto un’onda anomala, senza precedenti nella storia, di degiovanimento della nostra popolazione. La fascia 15-29 dai circa 13 milioni e mezzo di unità a inizio anni Novanta è scesa ora sotto la soglia dei 10 milioni e la sua incidenza sul totale della popolazione è diventata una delle più basse in Europa. Solo la peste o una grande guerra avevano in passato fatto altrettanto. Si poteva però pensare di compensare la ridotta quantità con un aumento della qualità, degli spazi, delle opportunità. Ma nemmeno questo è avvenuto, anzi. Alla caduta quantitativa abbiamo associato un disinvestimento generalizzato sulla componente che da sempre è motore di crescita e cambiamento. Esattamente il contrario di quello che nel passato accadeva dopo la peste o una grande guerra, che invece liberavano spazi e affidavano la ripresa alle energie e all’esuberanza delle nuove generazioni.

Una marginalizzazione, quindi, del tutto inedita, allo stesso tempo causa e conseguenza di una società diventata progressivamente più rigida, piena di vincoli, sempre più incapace di creare e redistribuire ricchezza e benessere. Eppure largo è stato in questo primo decennio del XXI secolo il riconoscimento che proprio il capitale umano delle nuove generazioni doveva essere la risorsa più preziosa e importante delle economie più avanzate per continuare a crescere e a rimanere competitive su scala globale. Un dato, più di altri, è in grado di dirci quanto noi di tutto questo ci siamo disinteressati, arrivando agli estremi della riduzione ad inutilità del bene giovani. Si tratta del numero dei Neet, acronimo che sta per Not in Education, Employment or Training. Indica di fatto quelli le cui intelligenze ed energie vengono lasciate deperire in un cassetto. Giovani che non si allenano e non partecipano alla gara. Ma come fa l’Italia a vincere se fa eccellere i giovani soprattutto nell’attività del non fare? Abbiamo il record in Europa di under 30 che non studiano e non lavorano, saliti a 2,2 milioni secondo le stime di Bankitalia.

Ma il segnale negativo non è solo quello che pur avendo meno giovani sprechiamo anche di più le loro capacità e competenze. Ad aggravare il quadro c’è anche il fatto che tale spreco è sì più alto al Sud, ma l’aumento recente è maggiore nel Nord: segno che le difficoltà dei giovani stanno diventando sempre più generalizzate sul territorio italiano. E’ aumentata inoltre la probabilità di intrappolamento in tale condizione: la probabilità di uscirne entro un anno è scesa sotto il 30 per cento. A fianco di questi dati c’è poi il consistente flusso di laureati che lasciano l’Italia e dei pochi che ne (ri)attraiamo. Le indagini su tale fenomeno ben evidenziano come all’estero riescano a trovare gli spazi e le opportunità che qui erano loro negate. I giovani italiani quindi, se messi nelle condizioni, giovano. Sono semi buoni, è l’Italia ad essere un terreno mal coltivato.