“La prima rivoluzione che riguarda tutti noi è dire basta con l’illusione dell’io. Ritroviamo la bellezza e l’ebrezza del noi. Basta con la ego-crazia, scommettiamo su un campo largo, collegiale, dobbiamo diventare più ricchi di contenuti e tornare a credere in opinioni che contribuiscono a creare una decisione”. Così Nicola Zingaretti si è candidato alla guida del Pd. L’ebrezza del noi, potremmo dire, costituisce uno degli assi portanti della “domanda di sinistra”. Senza la prima, non può esistere la seconda. Invece di guardare solo all’offerta di sinistra, la sollecitazione di Zingaretti punta nella direzione opposta e ci obbliga a chiederci: quali sono le condizioni sociali più favorevoli per una domanda politica di sinistra?
Il sociologo americano Erik Klinenberg in Palaces for the people. How social infrastructure can help fight inequality, polarization and the declin of civic life (Penguin Random House, 2018) sostiene che il futuro delle società democratiche si costruisce non solo, o non tanto, in base a valori comuni, quanto a partire dalla presenza di spazi condivisi. Biblioteche, centri per l'infanzia, librerie, chiese, moschee, sinagoghe, fablab, spazi di coworking, cooperative di comunità e parchi possono costituire contesti in cui le persone interagiscono in modi che hanno conseguenze dirimenti per la qualità democratica della società e, quindi, della politica che questa riesce a esprimere. Sono spazi, questi, in cui le persone si riuniscono per soddisfare contemporaneamente – tramite azioni pratiche – un obiettivo privato e un progetto pubblico. Klinenberg definisce questi luoghi come tasselli cruciali per la nascita e la crescita della “infrastruttura sociale” delle società.
Quando tale infrastruttura è robusta, la qualità democratica delle società è ben salvaguardata; quando è debole, gli individui perdono la capacità di aspirare collettivamente a un progetto comune. La filosofa analitica Margaret Gilbert ne Il noi collettivo (Cortina, 2015) avverte che senza un progetto congiunto non può esistere un attore plurale: senza un orientamento collettivo a un futuro condiviso, cioè senza un progetto comune, non c’è un vero noi, ma solo una somma di “io”. E da una somma di “io”, come dai diamanti, non nasce niente. La classe dirigente della sinistra italiana – con poche eccezioni – si è dimenticata che senza un “noi” orientato al futuro in modo aperto e inclusivo vengono a mancare le basi sociali della democrazia e, di conseguenza, i presupposti per la costruzione di un consenso politico di sinistra. Non ogni tipo di società è ugualmente adatta a esprimere un orientamento di sinistra, così come non lo è ogni tipo di economia.
Questi temi sono stati dimenticati a favore dell’idea che il controllo – effimero – dell’opinione pubblica sarebbe stato un elemento sufficiente per guidare un’azione politica progressista. Ma l’opinione pubblica non esaurisce la rilevanza della sfera pubblica, dei suoi spazi vivi, dei suoi luoghi concreti, delle sue ramificazioni territoriali. E della loro insostituibile capacità – come evocato in apertura dal richiamo al libro di Klinenberg – di generare progetti comuni e orientati al futuro.
Oggi, ciò che è drammaticamente assente – e che dovrebbe informare le strategie politiche di una classe dirigente di sinistra all’altezza dei tempi – è proprio la diffusa e pervasiva mancanza di meccanismi di costruzione del “noi”, oggi alle corde a favore di un “noi” nativista e impaurito che lascia spazio solo a ripiegamenti sulla propria individualità disperata, facile preda di una politica della nostalgia. Osservazione, questa, corroborata anche dalla recente ricerca di Loris Caruso e collaboratori ("Popolo chi? Rappresentazioni della politica tra le classi popolari". Inchiesta del “Cantiere delle idee” di prossima pubblicazione) svolta su un campione di residenti nei quartieri periferici di alcune medio-grandi città italiane. In questo lavoro si legge infatti che il sentimento secondo il quale io partecipo di una condizione comune a quella di altri, cooperando e lottando per cambiarla, sembra ormai assente. Non si individuano né le possibilità, né gli strumenti per farlo. Un vero e proprio “noi mancante”, incapace di costituirsi come soggetto plurale, base sociale per una politica della speranza collettiva. Ciò che è urgente ricostruire è, come la definisce l’antropologo Arjun Appadurai, la capacità di aspirare a un futuro comune dove i bisogni individuali si intrecciano senza soluzione di continuità a concezioni del buon vivere, a modelli di società e a dimensioni collettive. Un “noi” siffatto non può non essere prioritario, oggi, per la classe dirigente che ha ereditato una delle più gloriose tradizioni politiche della sinistra europea.
Un “noi” di questo tipo richiede la presenza di opportunità quotidiane per sperimentarsi come persone in ruoli di cittadinanza, di spazi e luoghi for the people. Ci sentiamo parte di qualcosa di collettivo solo se, in uno spazio dedicato, ci mettiamo alla prova come cittadini. Solo se esistono luoghi terzi dove i problemi e i bisogni individuali qui e ora diventano soluzioni collettive proiettate nel futuro. In quali occasioni, oggi, abbiamo questa possibilità? Quante “opportunità di cittadinanza” ci offre lo spazio pubblico? Quanto spesso abbiamo occasione di sperimentarci, insieme ad altri, in azioni pratiche dove i nostri bisogni trovano soluzioni che chiamano in causa gli assetti sociali più generali? Dove, cioè, un legittimo problema privato – occupazionale, di abitazione, di salute, di qualità della vita – si traduce in una soluzione futura che coinvolge idee, valori e meccanismi di funzionamento collettivi? Pensiamoci: quante volte nell’ultima settimana siamo concretamente stati dei cittadini?
La battaglia per difendere e costruire tali spazi – dalle piccole biblioteche di quartiere aperte fino a sera, ai community center, agli spazi per la gestione dei beni comuni – permettono alle persone di vivere i tempi e gli eventi del “mio”, dell’acquisizione di comfort nella “mia” casa, della salute “mia”, della crescita dei “miei” figli, vivendo nel contempo i tempi e gli eventi della “adesione al noi”. Anche l’apparentemente prosaico atto di fruizione di un bosco, di un giardino o di un cortile in modo condiviso acquista valore simbolico e stabilisce un nesso emotivo-cognitivo con l’ideale della solidarietà collettiva. La battaglia del Labour di Jeremy Corbin per “altri modelli di proprietà” e per “un’economia della vita quotidiana” o la prospettiva dell’economia fondamentale trova anche qui la sua ragion d’essere.
Con l’erosione dei pilastri della cittadinanza industriale e con la crisi del capitalismo organizzato non sono venuti meno solo o tanto i corpi intermedi, ma sono venuti a mancare soprattutto i luoghi intermedi, gli spazi della socievolezza quotidiana dove bisogni privati e progetti pubblici si intrecciano senza soluzione di continuità. La sfera privata del consumo e della riproduzione si è schiacciata sulla competizione di status, il cui valore sociale, al di là di quello strumentale, è la distanza guadagnata rispetto agli altri. I vissuti di successo sono gravidi di mitemi che rimandano alle capacità personali, del tutto sganciate dalla collettività di appartenenza rispetto cui non sente alcuna gratitudine e responsabilità. I fallimenti e le deprivazioni sono, al contrario, vissute con rabbia e frustrazione. Donne e uomini che vivono la loro individualità in negativo, come impossibilità di essere riconosciuti come persone e perciò esposti a crisi di autostima, perdita di capacità di aspirare e di inserire “il futuro nel quotidiano” (Il futuro nel quotidiano, a cura di O. de Leonardis e M. Deriu, Egea, 2012). La dicotomia secca vincente-perdente fornisce il criterio sociale di classificazione predominante e la regola di “riconoscimento” è quella sprezzante del winners-take-all. Quale consenso di sinistra può nascere da una società con una sfera pubblica di questo tipo? Quale rilevanza può avere l’opinione pubblica se gli spazi e i meccanismi di formazione del “noi” sono ridotti a narrative centrate sulle qualità individuali o sulla loro mancanza?
La priorità per una classe dirigente all’altezza dei tempi dovrebbe essere questa. Impegnarsi per ricostruire spazi, luoghi e modalità per sperimentare in modo pratico la capacità di aspirare a un futuro condiviso. Luoghi intermedi, una volta tipici delle fabbriche e della solidarietà di classe, oggi diffusi e radicati nei territori, dalle periferie alle aree interne, nei luoghi dello sfruttamento e in quelli dell’innovazione sociale, dalle nuove forme associative a ciò che resta di quelle tradizionali, ma anche nei luoghi della produzione della riproduzione. Luoghi intermedi capaci di intercettare la domanda di cittadinanza e il policentrismo territoriale, normativo ed esperienziale, caratterizzato da bisogni in parte simili e in parte unici. Un lavoro lungo e faticoso di costruzione politica e istituzionale che non si risolve con una cena tra amici, i cui effetti benefici si potranno vedere solo nel tempo e che, se mai ci saranno, potranno in futuro costituire le basi sociali per una nuova domanda di sinistra.
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