L’Italia del 1951 era un Paese che si stava liberando con fatica del fardello di un passato recente ingombrante. Vent’anni di dittatura fascista e un conflitto sanguinoso, culminato nell’esperienza dilaniante della guerra civile, avevano lasciato ferite profonde, che faticavano a rimarginarsi. La ricostruzione materiale e morale era in corso, ma non era facile, nel clima generato dalla Guerra fredda – caratterizzato dalla tensione tra due sistemi di vita alternativi – orientarsi verso un futuro che appariva segnato dall’incertezza. Nel febbraio l’Italia aveva aderito alla Comunità europea di difesa (Ced), e in aprile alla Ceca, il primo passo di quel processo di unificazione economica che negli anni seguenti avrebbe acquisito crescente vigore, sospinto dalla ripresa, per consolidarsi nel 1957 con il trattato istitutivo della Cee. La visita di Adenauer, in giugno, aveva sancito la revoca formale dello stato di guerra con la Germania, e il riconoscimento implicito, da parte del nostro Paese, della Repubblica federale tedesca come erede della Germania unita. Negli ultimi mesi dell’anno due eventi chiudono simbolicamente il lungo Dopoguerra. L’ammissione dell’Italia nell’Onu il 26 settembre, e la firma della revisione del trattato di pace con le potenze vincitrici nel dicembre (che l’Urss aveva rallentato ponendo come condizione l’uscita dalla Nato). Alla fine dell’anno, pur avendo rinunciato ai propri possedimenti d’oltremare, l’Italia riceveva dall’Onu un mandato fiduciario in Somalia, che sarebbe rimasto in vigore fino alla fine del decennio, accompagnando l’ex colonia all’indipendenza. L’atto conclusivo della sciagurata stagione del colonialismo cominciata all’inizio del secolo con l’invasione della Libia.

Sul piano della politica interna la situazione era in movimento. All’inizio dell’anno viene approvata la legge Vanoni, che introduce l’obbligo della dichiarazione dei redditi. Nel luglio si insedia il VII governo De Gasperi, della cui maggioranza non fanno parte il Pli e il Psdi. Proprio Ezio Vanoni, sostenitore di un orientamento più interventista in economia, prende il posto, come ministro del Tesoro, di Giuseppe Pella, che era stato tra gli artefici, con Luigi Einaudi, della ricostruzione dell’economia italiana nel segno del liberismo. Si apre lo spazio per un dialogo con le sinistre, critiche rispetto a quella che Vittorio Foa e altri intellettuali avevano polemicamente caratterizzato come la «restaurazione» capitalista dell’economia italiana. A dare il via libera a questo cambio di direzione nella politica economica furono, secondo alcuni storici, gli Stati Uniti, che favorivano un maggiore intervento della mano pubblica per mettere a frutto le risorse del piano Marshall. A ottobre Giuseppe Dossetti medita il suo ritiro dalla politica, ma la sinistra democristiana si organizza, e diventa protagonista di una nuova stagione politica che avrebbe condotto, nel giro di qualche anno, al centrosinistra.

A Bologna le vicende della politica nazionale vengono seguite con attenzione da un gruppo di ragazzi accomunati da una spiccata sensibilità civile e da un’inesauribile curiosità intellettuale

A Bologna, dove il 7 gennaio si celebra il XXIX congresso del Psi, le vicende della politica nazionale vengono seguite con attenzione da un gruppo di ragazzi accomunati da una spiccata sensibilità civile e da un’inesauribile curiosità intellettuale. Si conoscono da tempo, molti sono stati compagni di scuola al liceo Galvani. Qualcuno è stato segnato dalla guerra, o dalle violenze seguite alla liberazione, che in Emilia hanno lasciato una scia di sangue. Cresciuti all’ombra del fascismo, hanno soprattutto fame di futuro, e voglia di impegnarsi per fare in modo che l’Italia non finisca schiacciata sotto il peso delle sue arretratezze culturali (secondo i dati del censimento, fatto proprio nel 1951, il 12,9% della popolazione risulta analfabeta) ed economiche (sempre secondo il censimento, su una popolazione attiva di 19.516.000 persone, gli addetti all’agricoltura sono ancora il 42,2%). L’idea viene a Fabio Luca Cavazza, che riesce a trovare il sostegno di Giorgio Barbieri (presidente dell’Associazione degli industriali di Bologna). Fondare un foglio di discussione che si rivolgesse in primo luogo agli universitari, specie a quelli poco attratti dalla Goliardia o dall’impegno nei partiti. Attrezzare insomma una «palestra» – questa la felice espressione di Cavazza – che consentisse a questo gruppo di giovani intellettuali di esercitarsi nella difficile arte del ragionare insieme. Con quella libertà che nel 1951 era difficile trovare sia nei partiti sia nelle organizzazioni di natura confessionale. Nasce così «il Mulino».

il Mulino: perché andavano evitati nomi ideologici, incentrati su enfasi di libertà, giustizia, lavoro, pace e altre nobilissime cose. Tutte formulazioni molto ambiziose, ma non adatte a identificare quei giovani

Secondo Luigi Pedrazzi, uno di quei ragazzi, che nel 2001 (in occasione di un altro anniversario) ha scritto un memoir che racconta la nascita e i primi anni di attività della rivista, il nome era stato suggerito da un altro membro del gruppo, Gianluigi Degli Esposti. La spiegazione di questa scelta singolare era che «occorreva evitare nomi ideologici, incentrati su enfasi di libertà, giustizia, lavoro, pace, e altre nobilissime cose. Per situazione e convinzione di quei giovani, sarebbero state tutte formulazioni molto ambiziose, non adatte a identificarli. Quando era uscito, agli inizi della guerra, avevano letto e amato molto Il mulino del Po di Riccardo Bacchelli; sapeva di Emilia (un’Emilia non ancora rossa, ma ugualmente storica e popolare). […] Per tutti fu naturale pensare che al Mulino si macinano grani di diversi tipi, duri e morbidi, di semola e bianchi, e questo pluralismo dei semi andava benissimo per un gruppo che era orgoglioso e contento della sua realtà plurale, di amicizie non rissose, ma fortemente dialettiche. Se poi si trattava adesso di lavorare di più, se pure artigianalmente, l’industria molitoria era sentita la più vicina alla terra in cui si era nati, alle sue antiche tradizioni, e un po’ anche alla fame memorabile degli anni di guerra». La macina delle idee comincia a girare il 25 aprile del 1951, e non si sarebbe più fermata. Oggi festeggiamo settant’anni di attività.

Al primo foglio quindicinale sarebbe seguito, nel giro di qualche mese, un mensile con la stessa testata. Nel 1954 alla rivista si affianca una casa editrice. Sotto lo sguardo vigile di Barbieri, i redattori – che nel frattempo si sono avviati tutti a carriere individuali che li porteranno a distinguersi, ciascuno nel proprio campo, ma senza mai perdere la voglia di discutere, di polemizzare a volte, e di cercare di comprendere un mondo che stava cambiando in maniera sempre più veloce col passare degli anni – sperimenteranno quello che Pedrazzi chiama un «lavoro intellettuale in uno spazio industriale». Perché sin dall’inizio hanno chiaro che le idee non bastano, bisogna confezionarle in un prodotto editoriale che deve essere in grado di stare sul mercato, di distinguersi dalla concorrenza, e di avere un impatto sul dibattito pubblico. Bisogna studiare, saper scrivere, ma anche far quadrare i conti. Sono gli anni in cui in Italia nasce l’industria culturale di cui con tanto acume – e con l’ironia sferzante del figlio della Maremma grossetana – ha scritto Luciano Bianciardi. Ben presto la rivista fondata dagli amici bolognesi prende il suo posto nel dibattito nazionale, si fa conoscere, viene presa a modello da altre iniziative simili che nascono in diverse città italiane, al Nord e al Sud. Consumato un divorzio consensuale con il primo finanziatore, che guardava con crescente preoccupazione al fitto dialogo che la rivista aveva con le sinistre – democristiana, socialista, e persino, sia pure con maggiore distanza, comunista – la rivista e la casa editrice acquisiscono la propria autonomia finanziaria, che conservano ancora oggi, come parte di un gruppo che vede affiancate attività imprenditoriali e realtà culturali (con la rivista e la casa editrice verranno l’Istituto Cattaneo e la Biblioteca).

Nella sua ricostruzione Pedrazzi tratteggia il profilo politico dei fondatori della rivista, collocandoli nel panorama ideale dei primi anni Cinquanta: «democratici e antifascisti, […] né comunisti né anticomunisti, cattolici ma non democristiani, laici ma non laicisti, senza problemi a stare con gli industriali in una comune impresa editoriale». Oggi alcune di queste caratterizzazioni possono apparire di difficile comprensione ai nostri lettori, specie a quelli più giovani, ma credo che chiunque possa cogliere il carattere liberale del modo di stare insieme di persone che avevano sensibilità diverse, a partire dalla dimensione religiosa, ma che si trovavano in un metodo comune. Proprio da questo liberalismo dello spirito scaturiva anche l’impegno a farsi mediatori tra la grande cultura internazionale, in particolar modo quella statunitense, e la provincia italiana, che usciva da un lungo periodo di esclusione dalla libera circolazione delle idee, per via del fascismo, e che stava sperimentando nuove, sia pur meno opprimenti, forme di interdetto per via della Guerra fredda. Non tutti guardavano con favore all’americanismo del gruppo del Mulino. Ma col tempo persino i comunisti – Amendola, poi Fanti e Zangheri dopo la fine dello stalinismo – si rendono conto che vale la pena di discutere con l’ambiente della rivista, che sta introducendo temi importanti nella cultura italiana: l’attenzione alle scienze sociali, alle filosofie anglofone, all’economia Keynesiana, alla storia politica europea. Dall’incontro con Altiero Spinelli trova alimento un’altra dimensione di impegno della rivista, stavolta per l’integrazione europea, che rimane ancora oggi una causa che sosteniamo con immutata convinzione. La fedeltà all’antifascismo, la data del 25 aprile non era certo casuale, non impediva agli animatori della rivista di interrogarsi su un post-fascismo che prima o poi deve arrivare, perché solo chiudendo definitivamente i conti con quel passato (che negli anni Cinquanta ancora non passava) sarebbe stato possibile andare avanti.

Sono trascorsi settant’anni dal 25 aprile del 1951, una storia lunga, che non possiamo ripercorrere nei dettagli. Fatta di battaglie culturali, di scontri e di incontri, di tentativi andati a buon fine e di iniziative non riuscite (alcune forse perché in anticipo sui tempi). Oggi la rivista inaugura una nuova stagione, che vede finalmente il cartaceo integrarsi con l’online, in un prodotto editoriale unico, ma caratterizzato da diverse periodicità e prospettive. Uno sguardo rivolto alla quotidianità, ma sempre cercando di distinguere ciò che è caduco da ciò che conta davvero e condiziona il futuro, e uno che cerca di cogliere le tendenze di lungo periodo, attraverso l’analisi e la ricostruzione storica. Del profilo ideale delle origini rimane soprattutto lo spirito liberale, l’impegno a ragionare senza farsi accecare dall’ideologia, e la fiducia nella democrazia, che oggi appare minacciata da pericoli diversi rispetto a quelli che c’erano negli anni Cinquanta, ma forse non meno insidiosi. Per questo, e non solo per amore di simmetria, settant’anni dopo, ricominciamo dal 25 aprile.