Stupiscono alcune reazioni alla sentenza su Mafia Capitale, soprattutto quelle espresse da esponenti politici. Come se non riconoscere l’articolo 416 bis e l’aggravante mafiosa rendesse meno rilevanti le responsabilità penali sin qui accertate dai giudici. La sentenza ha provato la presenza di crimini assai gravi, comminando pene molto severe, in particolare agli imputati appartenenti al “mondo di sopra”. Uno scenario preoccupante che meriterebbe ben altre considerazioni da parte di chi ha ruoli politici in partiti e istituzioni. Il problema che andrebbe seriamente discusso riguarda le forme che ha assunto nel nostro Paese la corruzione, sempre più radicata in reti di affari e connessa a forme strutturate di criminalità, di tipo economico e spesso anche di tipo mafioso.
Da questo punto di vista, l’inchiesta Mafia Capitale è tutt’altro che anomala: come documentato in una ricerca sulla corruzione politica – promossa dalla Fondazione Res e coordinata da chi scrive (i cui risultati saranno pubblicati in un volume in uscita a settembre dall’editore Donzelli) – sempre più negli ultimi anni vicende di corruzione, soprattutto di tipo “sistemico”, sono stati affrontati in sede giudiziaria ricorrendo a fattispecie riconducibili a reati associativi, di frequente anche di tipo mafioso. La ricerca si è basata su un’analisi delle sentenze della Corte di Cassazione, dal 1995 al 2015, quindi il dato è oltremodo significativo (soprattutto nell’ultimo decennio il ricorso a reati associativi raggiunge quasi il 45% del totale delle vicende selezionate nella ricerca, con riferimento a casi di corruzione che hanno coinvolto direttamemte soggetti detentori di cariche politico-amministrative a livello locale, regionale e nazionale).
D’altra parte, è bene non dimenticare che l’inchiesta della Procura di Roma aveva trovato conferma in due pronunciamenti della stessa Cassazione, che peraltro avevano rimarcato il carattere mafioso del sodalizio criminale in termini ancora più evidenti rispetto a quanto ipotizzato dall’impianto accusatorio dei pubblici ministeri. Bisognerà attendere naturalmente le motivazioni della sentenza per capire quale è stato l’orientamento dei giudici. Il reato di associazione mafiosa non solo non prevede specifici riferimenti geografici o “culturali”, ma non contempla neppure come condizione necessaria il controllo del territorio. Elemento qualificante è invece la capacità di intimidazione, che rimanda all’uso della violenza. Un uso che storicamente può assumere forme diverse e che sociologicamente trova la sua massima espressione quando resta allo stato potenziale, quando cioè i mafiosi non hanno bisogno di renderlo effettivo, perché il loro potere è comunque riconosciuto e più o meno legittimato. Bisognerà quindi valutare come i giudici hanno affrontato questo punto. E come hanno affrontato l’altro aspetto cruciale del rapporto tra mafia e corruzione.
È stato detto che i mafiosi, proprio perché ricorrono all’intimidazione, sarebbero estranei alle logiche della corruzione. Mafia e corruzione sono certamente due fenomeni diversi, che vanno opportunamente distinti, ma non è affatto vero che tra i due non ci sia relazione. Anche nelle aree di insediamento tradizionale i mafiosi impiegano da sempre metodi corruttivi, mettendo a frutto l’altra specializzazione che li caratterizza, insieme a quella relativa all’uso della violenza: la capacità di accumulare e utilizzare capitale sociale, vale a dire di massimizzare risorse di tipo relazionale, che traggono da rapporti di contiguità, di collusione e anche, in senso proprio, di corruzione. Ma c’è di più: i mafiosi sono in grado di ricavare vantaggi ponendosi come garanti di accordi collusivi e scambi corruttivi, assicurando cioè il rispetto dei patti e il buon esito delle transazioni occulte. Inoltre, un contesto permeato dalla corruzione è quello che più favorisce l’espansione delle mafie, come testimoniato da numerosi casi ad esempio in Lombardia e, in modo assai evidente, proprio a Roma e nel Lazio.
Una delle più importanti poste in gioco della vicenda giudiziaria di Mafia Capitale riguarda quindi proprio il perimetro di applicabilità del 416 bis, in un momento storico in cui le mafie tradizionali stanno modificando profondamente le loro modalità di azione e di organizzazione, mentre emergono nuove forme di criminalità strutturata. A mio parere il grande merito dell’inchiesta della Dda romana è stato il tentativo di affrontare in modo sistematico – sul piano della repressione giudiziaria – il problema della cosiddetta “area grigia”. Una questione di cui si parla tanto, ma su cui non c’è ancora molta chiarezza. Il Mondo di mezzo ci restituisce indubbiamente una vivida rappresentazione dell’area grigia, o meglio di una sua possibile configurazione. Perché una delle caratteristiche di quest’ultima, che la rende anche più difficile da riconoscere e contrastare, è che essa può assumere forme molto diverse a seconda dei contesti e del tipo di attori coinvolti. L’area grigia non è semplicemente, come spesso si pensa, la zona di contiguità che si estende all’esterno della mafia. Essa ha la forma di una nebulosa, con confini mobili e assai variabili: i mafiosi si muovono al suo interno, instaurando una varietà di rapporti di scambio, sono a loro agio in questo ambiente ma non ne sono necessariamente gli attori più importanti, quindi non sono neppure quelli che ne ricavano sempre i maggiori benefici. Il suo funzionamento si basa su “giochi a somma positiva”, quelli per cui tutti i partecipanti al gioco hanno qualcosa da guadagnare, quindi molto diversi dai “giochi a somma zero”, quelli per cui chi vince piglia tutto. I mafiosi sono spesso rappresentati come impegnati in giochi a somma zero, che riuscirebbero a vincere proprio grazie alla loro peculiare capacità di intimidazione. In realtà, una gran mole di evidenze empiriche mostra che essi mettono al servizio di altri questa capacità (nella forma di servizi di protezione, mediazione e regolazione); al tempo stesso, essi preferiscono optare per giochi a somma positiva, per i quali diventa rilevante stabilire chi è incluso e può partecipare agli scambi collusivi, e chi invece ne è escluso, mentre i costi vengono ovviamente scaricati in vario modo sulla collettività.
Il caso Mafia Capitale ha portato chiaramente alla luce dinamiche di questo tipo. C’è da aggiungere che i meccanismi generativi dell’area grigia non risiedono in una semplice estensione della sfera dell’illegalità, ma sono più complessi e prendono forma da una perversa commistione tra lecito e illecito. I confini tra sfera legale e illegale diventano opachi e porosi, si determinano situazioni di vera e propria “con-fusione”, per cui diventa difficile distinguere l’imprenditore buono da quello cattivo, i politici e i funzionari onesti da quelli corrotti, in una crescente commistione di ruoli, competenze e interessi. Questa confusione è una caratteristica strutturale dell’area grigia, ciò che ne permette la riproduzione e l'espansione. Bisogna tenere conto che essa, dopo avere assunto una specifica configurazione, tende ad acquisire una sua autonomia e a funzionare quasi in modo inerziale, ossia per forza propria, quella che le deriva dalla reti di relazioni che la costituiscono.
Si diceva che l'area grigia ha la forma di una nebulosa, ma è tutt’altro che una realtà evanescente, anzi, ha una sua solida consistenza, cementata da una ferrea logica degli affari. Ecco un’altra importante differenza rispetto alle mafie tradizionali: la logica degli affari è di gran lunga prevalente sulla logica dell’appartenenza. Se leggiamo la mafia con le lenti di quest’ultima (i legami di sangue, i rituali di affiliazione, i locali della ‘ndrangheta e così via dicendo), riusciamo a cogliere aspetti certamente rilevanti ma oggi anche sempre più parziali. È possibile trovare così la mafia, intesa nella sua versione più tradizionale, rischiando però di non vedere l’area grigia. Come si è detto, quest’ultima funziona secondo criteri diversi, ma non è altro rispetto alla mafia. I mafiosi stanno dentro l’area grigia insieme ad altri attori (politici, imprenditori, professionisti, funzionari pubblici), perseguendo interessi diversi ma complementari, in reti di relazioni a geometria variabile, permeate dalla logica dello scambio collusivo-corruttivo.
Il problema di non facile soluzione, allora, è come individuare e contrastare queste aree grigie, che pur non avendo la forma classica delle associazioni criminali di tipo mafioso non sono da meno per assetto organizzativo (di tipo però reticolare e non gerarchico) e per modalità di azione (intimidazione, assoggettamento e omertà basati, più che sulla violenza, sul capitale sociale; prevalenza della logica degli affari su quella dell’appartenenza). A me pare che la Dda guidata da Pignatone abbia colto questa sfida: cercare di disfare la rete dell’area grigia individuata nella Capitale ricorrendo anche allo strumento del 416 bis. Allora, se quest’ultimo non è considerato adeguato, diventa urgente capire che tipo di dispositivi approntare. E bisogna avere comunque la consapevolezza che oggi la questione più importante da affrontare riguarda la connessione sempre più stretta tra criminalità economica e dei colletti bianchi e criminalità mafiosa, connessione che trova proprio nell’area grigia il punto massimo di incontro e di congiunzione. Il Mondo di mezzo, appunto. La sentenza del Tribunale di Roma offre quindi ben poche rassicurazioni. L’area grigia è di gran lunga più pericolosa della mafia. La sentenza testimonia semmai che – allo stato attuale – non abbiamo ancora strumenti adeguati e condivisi per contrastarla. La partita è però aperta e ancora tutta da giocare, si spera non solo sul piano giudiziario, ma anche su quello politico.
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