Porto Ercole, un sabato di luglio. Alle cinque della sera, un sedicente professore in abito blu sbarca dal veliero di Cesare Previti: ha in mano un’urna di cristallo che contiene alcune ossa umane adagiate su un panno di velluto rosso. Sono le ossa di Caravaggio. Sul molo – plaudenti – sindaci e politici vari, cameramen e giornalisti. Seguono i discorsi ufficiali, innervati da un unico tema: l’auspicio accorato che il mucchietto d’ossa scacci la crisi.
Non è un soggetto da fiction, qualcosa tra Totò truffa e le satire preventive di Michele Serra. No: è tutto vero – tutto tranne il fatto che i resti siano di Caravaggio, naturalmente. Venti giorni prima era stata resa pubblica la “scoperta”: «all’85% abbiamo ritrovato le ossa di Caravaggio». Ma cosa significava, esattamente, quell’annuncio clamoroso? L’analisi del DNA avrebbe mostrato che quei pochi frammenti ossei sarebbero “compatibili” con il patrimonio genetico di alcune persone che portano il cognome dell’artista e vivono nel suo paese d’origine (appunto Caravaggio, in provincia di Bergamo). Che questi signori abbiano, poi, una qualche attinenza di sangue con l’artista, nessuno ha potuto stabilirlo. Insomma, in termini storici e scientifici quella frase non significa nulla.
Quando poi si apprende come sono stati selezionati i reperti da analizzare, c’è da mettersi le mani nei capelli. Non si è, infatti, condotta una campagna storico-archeologica volta a individuare le aree cimiteriali in cui, nel luglio 1610, poté essere sepolto il corpo dell’artista (una zona molto ampia e oggi occupata da numerosi edifici, nelle cui cantine erano, e sono, frequenti i ritrovamenti di ossa umane). No: ci si è limitati a sottoporre ad analisi i resti che emersero per caso, nel 1956, durante uno scasso superficiale effettuato per realizzare un minuscolo giardino. Bisognerebbe dunque pensare che, per l’appunto, un ritrovamento parzialissimo e accidentale avesse restituito – tra tutte quelle risultanti da secoli e secoli di inumazioni – proprio le ossa di Caravaggio. Praticamente un miracolo.
Ma un miracolo del marketing. Il “Comitato per la valorizzazione dei beni storici, culturali e ambientali” che ha promosso la ricerca non è, infatti, un organismo scientifico ministeriale (come il nome potrebbe far credere), ma un’associazione presieduta dallo scrittore Silvano Vinceti (il sedicente professore sbarcato dal veliero, nonché presidente degli “Ambientalisti liberali” confluiti in Forza Italia nel 2008). Il Comitato definisce la propria azione in termini di «gratuito marketing del nostro patrimonio culturale», e vanta la «ricaduta mass mediale globale» delle proprie ricerche sui resti (tra gli altri) di Dante, Boiardo e Leopardi. In un suo comunicato stampa dell’anno scorso si legge: «Il prossimo anno ricorrerà il quattrocentesimo anniversario della morte del geniale Caravaggio, in Italia e nel mondo si stanno predisponendo molteplici eventi per questa importante ricorrenza. Il comitato darà il proprio contributo con questa ricerca che, siamo convinti, avrà esito positivo». E l’esito positivo, immancabilmente, c’è stato.
Alla fine della sua allocuzione sul pontile, il sindaco dell’Argentario ha ringraziato Previti (al suo fianco, in completo marinaro) per aver messo a disposizione la sua suggestiva goletta. Pluripregiudicato, egli è ovviamente interdetto in perpetuo dai pubblici uffici e fa un po’ effetto vederlo vezzeggiato dalle fasce tricolori. A ben guardare, tuttavia, la cosa ha un suo senso profondo: Caravaggio non è un fatto pubblico, ma un vettore dell’interesse privato, è solo uno dei tanti giacimenti “culturali” che si cerca disperatamente di mettere a reddito. San Caravaggio come Padre Pio, nella speranza che le reliquie facciano il miracolo di riempire un po’ di più i ristoranti, le spiagge e gli alberghi.
Di fronte a tutto ciò, gli storici dell’arte hanno taciuto. E che potevano dire? I già gloriosi studi caravaggeschi sono stremati da decenni di Grandi Eventi di cassetta (buona ultima la mostra caravaggesca di Roma), di scoop improbabili, di attribuzioni patetiche, di iconologia da baraccone. Negli ultimi anni si sono bevuti anche il ‘certificato di morte’ di Caravaggio: un clamoroso falso recente ‘rinvenuto’ nell’archivio parrocchiale di Porto Ercole. I cosiddetti giornalisti culturali, dal canto loro, hanno moraleggiato sull’uso delle ossa, ma non uno di loro ha spiegato (e forse nemmeno capito) perché la notizia fosse una bufala clamorosa.
Insomma, una vicenda che è una perfetta metafora del ruolo della storia dell’arte nel discorso pubblico nazionale: non più sapere critico, ma industria dell’intrattenimento “culturale”, strumentalizzata dal potere politico, banalizzata dai media e preda di imbonitori dilettanti.
La gente, però, ha un disperato bisogno di credere al miracolo delle ossa. D’altra parte, l’urna non è arrivata a bordo della barca del Senatore? Ed è mai stato dalla parte sbagliata, quello?
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