Pochi giorni fa, mentre a New York l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite era nel pieno di un fitto lavorio diplomatico per l’eventuale riconoscimento di uno Stato palestinese sovrano e indipendente, Israele lanciava al mondo un chiaro segnale, e un’ennesima provocazione politica, annunciando la costruzione di più di mille nuovi appartamenti a Gilo, un insediamento ebraico nella Cisgiordania occupata. Gilo non è certo un caso unico. Incurante delle pressioni internazionali, Israele continua a costruire case e infrastrutture nelle sue “colonie” in Cisgiordania, a demolire case arabe “abusive” (è difficilissimo, per un palestinese, ottenere dalle autorità israeliane d’occupazione il permesso di costruirsi una casa su un terreno che gli appartiene), a distruggere, per mano di coloni particolarmente aggressivi, uliveti palestinesi e altro.
Le “colonie” rendono impossibile la creazione di uno Stato palestinese nei territori arabi occupati da Israele nella guerra del 1967, e costituiscono una loro strisciante annessione a Israele, totale o parziale. È una vecchia storia iniziata quarant’anni fa e che continua a ripetersi con drammatica monotonia, benché per la comunità internazionale gli insediamenti e le strade che li collegano tra loro e a Israele (strade proibite ai palestinesi) siano perfettamente illegali. Il caso di Gilo, pochi giorni or sono, ha suscitato l’usuale litania di critiche e condanne senza conseguenze.
Le “colonie” rendono impossibile la creazione di uno Stato palestinese nei territori arabi occupati da Israele nella guerra del 1967
A Washington, anche l’amministrazione Obama ha manifestato il proprio disappunto, cui risulta però difficile conferire la benché minima credibilità politica e morale. Basti ricordare che lo scorso febbraio, al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, proprio gli Stati Uniti bocciarono col loro veto un progetto di risoluzione, approvato da tutti gli altri membri del Consiglio, che condannava le attività di Israele negli insediamenti stabiliti nei Territori palestinesi occupati, compresi quelli situati nella cosiddetta Gerusalemme Est, cioè in zone della Cisgiordania ai confini di Gerusalemme annesse (illegalmente) da Israele. Il veto americano non aveva alcuna giustificazione sul piano dei principi: il progetto di risoluzione non faceva che ribadire i punti chiave del consenso internazionale in materia, compreso quanto hanno sempre affermato anche gli Stati Uniti. Più recentemente, nel suo discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il presidente Obama, dopo aver parlato del (presunto) ruolo degli Stati Uniti per la diffusione della libertà e della democrazia nel mondo (compresi Paesi “liberi e felici” quali l’Iraq, l’Afghanistan e altri) e dopo formali parole di circostanza a favore della Rivolta Araba (che i media e le cancellerie occidentali chiamano Primavera Araba, con toni di patetica condiscendenza post-coloniale), ha di fatto escluso dal diritto alla libertà e alla democrazia gli sciiti del Bahrein e i palestinesi dei Territori occupati da Israele.
Quanto ai palestinesi, Obama ha esplicitamente negato loro il diritto di chiedere all'Onu un qualche riconoscimento formale
Nel Bahrein la maggioranza della popolazione è sciita ma il potere è in mano ai sunniti, e l’Emirato ospita il Quartier Generale della Quinta Flotta degli Stati Uniti e varie installazioni militari americane. Dunque, per superiori interessi strategici, Obama non può preoccuparsi più di tanto se gli sciiti del Bahrein sono discriminati. Quanto ai palestinesi, Obama ha esplicitamente negato loro il diritto di chiedere all'Onu un qualche riconoscimento formale (benché puramente teorico, per via dell’occupazione israeliana) e ha annunciato un altro veto americano se la questione del riconoscimento dovesse arrivare al Consiglio di Sicurezza. I palestinesi, dice Obama, devono negoziare direttamente con Israele, che però rende loro la vita impossibile, occupa le loro terre, continua a costruire nelle “colonie”, è una grande potenza militare e non accetterà mai uno Stato palestinese. Nel suo discorso, circa l’occupazione, Obama non ha detto una sola parola, ma ha ribadito il totale appoggio americano a Israele. Molti fattori aiutano a capire questa acquiescenza di Obama alle decisioni del governo israeliano di Benjamin Netanyahu.
Negli Stati Uniti è già di fatto iniziata la campagna per le presidenziali del novembre 2012, e vi è un clima politico sempre più islamofobo e anti-arabo. Il Congresso continua a proporre misure punitive e persecutorie verso i palestinesi. Obama viene spesso attaccato da commentatori come «il presidente più anti-israeliano della Storia» e può temere il potere elettorale e finanziario della lobby israeliana. Tuttavia, per questioni elettorali, Obama mette a repentaglio lo scarsissimo credito politico ormai rimasto agli Stati Uniti nel Medioriente arabo. In un articolo per il «New York Times», il principe saudita Turki el-Feisal (ex ambasciatore a Washington e, prima ancora, per venticinque anni capo dell’intelligence di Riad), che da tempo sembra esprimere ufficiosamente il punto di vista della Casa reale sui fatti internazionali, ha avvertito che un veto al riconoscimento dello Stato palestinese potrebbe avere effetti disastrosi per la politica americana nella regione, e mettere in crisi anche la lunga alleanza tra Arabia Saudita (numero uno mondiale del petrolio) e gli Stati Uniti. L’amministrazione Obama non ha ritenuto di dover dare una qualche risposta al principe Turki. Ma ha confermato, nei fatti, che gli Stati Uniti non sono più, se mai lo sono stati, un honest broker, cioè un onesto intermediario per una pace tra Israele e i palestinesi.
In realtà, gli Stati Uniti sono l’alleato strategico di una dalle due parti in causa, Israele, che sostengono attivamente sul piano diplomatico, politico, economico e militare. Ma, diversamente che in passato, gli Stati Uniti sono una potenza in rapido declino, con una leadership politicamente miope. E ciò può avere effetti disastrosi tanto per il Medioriente quanto per il mondo intero.
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