Nell'ultimo anno, un articolo di John Foot, un libro di Tim Parks e, più di recente, una trasmissione di Rai3 hanno riacceso il dibattito – mai del tutto sopito, a dire il vero – sul malaffare nelle università italiane. In realtà, in tutti e tre i casi l’obiettivo è più ambizioso: rappresentare l’accademia italiana come un centro di malaffare.

Il dibattito su questo tema si presenta molto polarizzato. Da un lato, c’è chi ritiene che nelle università italiane tutti siano parenti fra loro, il merito non conti e i professori ordinari siano dei capi mandamento titolari di uno ius vitae ac necis su associati e ricercatori; dall’altro, c’è invece chi considera il mondo accademico italiano il migliore dei mondi possibili, nonostante gli scarsi finanziamenti e scelte legislative il più delle volte opinabili e schizofreniche. Come è noto, qualora esista, la verità sta nel mezzo. Qui però non intendo percorrere per intero questa via mediana – cosa che richiederebbe una analisi ben più approfondita di quella che è possibile fare in questa sede – ma soltanto applicare il monito sempre attuale di Fabrizio De Andrè secondo cui nessuno può considerarsi assolto e siamo tutti coinvolti.

Messi dunque da canto i problemi strutturali dell’accademia italiana, su cui la letteratura non manca (a titolo esemplificativo segnalo le condivisibili riflessioni di Andrea Mariuzzo e Francesco Ramella in diversi interventi pubblicati su queste pagine), la domanda alla quale non intendo sottrarmi è se alcune patologie possano essere quantomeno mitigate attraverso comportamenti virtuosi, o semplicemente corretti, compiuti dalla classe dei professori universitari.

Negli anni della rivoluzione studentesca, Alf Ross, insigne giurista e filosofo del diritto scandinavo, scrive un articolo su democrazia e università in cui difende con argomenti convincenti la tesi secondo cui la responsabilità principale della gestione e del funzionamento dell’accademia spetta ai professori e non può essere ripartita in modo eguale tra questi ultimi, gli studenti, il personale tecnico amministrativo e una guida manageriale che punti all’efficienza. Questo perché, banalmente, l’università non può essere gestita come le ferrovie dello Stato. Al netto del sapore un po’ reazionario di questa tesi, credo che in essa vi sia del vero.

Per molte ragioni, negli ultimi decenni i professori non hanno fatto granché sentire la propria voce sulle scelte politiche inerenti all’università, e quando hanno detto qualcosa lo hanno fatto in modo flebile e contraddittorio. È il caso dunque di capire se siamo d’accordo che alcune cose non vadano affatto bene e se sia possibile fare qualcosa dal basso affinché vadano un poco meglio. Mi limito a un paio di esempi.

Il primo problema su cui occorre ragionare è la scarsa mobilità e l’asfittica chiusura localistica dell’università italiana. La staticità è l’antitesi di una accademia in salute

Il primo problema su cui occorre ragionare è la scarsa mobilità e l’asfittica chiusura localistica dell’università italiana. La staticità e dunque la ridotta circolazione delle persone e delle idee sono l’antitesi di una accademia in salute. Questa patologia dipende ovviamente da molteplici fattori di sistema che possono essere compendiati nell’autonomia universitaria, un assetto che ha reso molto più difficili e costosi gli spostamenti da una sede all’altra. Detto questo, è un fatto che, anche rispetto ai concorsi per ricercatori, che segnano l’ingresso nei ranghi dei docenti universitari, c’è una netta prevalenza di vincitori che hanno percorso tutto il loro cursus honorum (laurea, dottorato, borse post-doc, assegni di ricerca…) nella sede che ha bandito il posto.

Che cosa fare per invertire la rotta? Semplice: incentivare i propri allievi ad andare a studiare fuori anziché tenerli al caldo nel proprio marsupio. L’impressione che in questi concorsi una certa consuetudine di rapporti, l’essere soci dello stesso tennis club o il frequentare il medesimo gruppo di preghiera possa fare premio sulle valutazioni di merito è tutt’altro che peregrina. Inoltre, se giovani qualificati, che magari hanno studiato all’estero e che hanno pubblicato su riviste e con editori prestigiosi, decidono di presentare domanda per un concorso da ricercatore, sarebbe giusto accoglierli con le braccia aperte anziché considerarli corpi estranei da espellere senza remore.

Infine, c’è in discussione un disegno di legge, approvato dalla Camera il 15 giugno 2021, che interdice la possibilità di partecipare a concorsi da ricercatore nella stessa sede dove si è conseguito il dottorato (ma non stupisce che questo progetto sia già stato depotenziato). Discutendo di questa misura con alcuni colleghi ho letto nei loro occhi un autentico sconforto, nonché la speranza, per nulla mal riposta, che di tale misura non resti traccia alla fine dell’iter di trasformazione del progetto in legge. Possiamo dire, con voce forte e per quanto possibile unanime, che sarebbe una misura giusta e auspicabile?

Un altro problema è legato al fatto che l’introduzione di una logica efficientista nell’università – sintomatico che articoli e libri siano denominati "prodotti" – ha comportato che gli studiosi, soprattutto giovani (ma non solo), siano più preoccupati di accumulare "prodotti della ricerca" invece che di impegnarsi in ricerche di qualità e di ampio respiro. A ciò si aggiunga che queste valutazioni “un tanto al chilo”, che sottendono una mancanza di fiducia nei confronti degli accademici, la cui discrezionalità va fortemente mitigata attraverso criteri “oggettivi” (come il numero di pubblicazioni, appunto), favoriscono gli studiosi “anziani” rispetto ai giovani di valore. In un concorso per ricercatore perché mai si dovrebbe favorire un cinquantenne che ha pubblicato svariate monografie (magari con un impatto trascurabile sulla comunità accademica) rispetto a un giovane dottore di ricerca che ha pubblicato un paio di saggi brillanti?

In un concorso per ricercatore perché si dovrebbe favorire un cinquantenne che ha pubblicato svariate monografie (magari con un impatto trascurabile sulla comunità accademica) rispetto a un giovane dottore di ricerca con un paio di saggi brillanti all'attivo?

Durante un concorso, un candidato molto bravo, poi risultato vincitore, alla mia osservazione che un suo lavoro, pieno di idee originali, sarebbe stato molto migliore se alcune sue parti avessero ricevuto un approfondimento maggiore, mi ha risposto, mettendo il sale nella piaga, che non si poteva pretendere, al tempo stesso, quantità e qualità. In effetti, se quel lavoro non fosse stato pubblicato in tempo per essere presentato al concorso, forse quel candidato sarebbe stato scalzato da qualcuno con più chili di prodotti al suo attivo.

Certo, anche in relazione a questo problema le logiche di sistema, che senza alcun dubbio spingono ad assimilare i prodotti della ricerca al tonno in scatola, possono essere assecondate o meno. È innegabile che in questi anni i professori universitari hanno seguito la prima strada, talvolta per cattiva coscienza talaltra per falsa coscienza di classe. La comunità scientifica dovrebbe riprendersi il proprio ruolo. Ad esempio discutendo pubblicamente le opere degli studiosi più giovani e assumendosi anche la responsabilità di individuare in modo aperto gli studiosi promettenti.

Se poi capita che in un concorso venga compiuta una palese ingiustizia, una comunità scientifica sana non si gira dall’altra parte ma fa sentire la sua voce e il suo peso.

Se si vuole trarre una morale generale da queste esemplificazioni è la seguente: le scelte legislative e gli indirizzi politici incidono ma solo sino a un certo punto. Il funzionamento, buono o cattivo, di una pratica sociale dipende in non piccola misura dai comportamenti e dalla moralità dei partecipanti. Se questi ultimi fanno degnamente la propria parte siamo già nella giusta direzione.