Nell’arco di vita di una generazione l’Europa è passata dall’essere un coacervo di pulsioni violente e autodistruttive al conferimento del premio Nobel per la pace. La consuetudine dentro la quale sono nate, a partire dagli anni Cinquanta, generazioni di europei, non deve precludere lo sguardo, stupito e grato, per quanto raggiunto. In questo senso, il Nobel conferito all’Unione europea ha esattamente la forma del riconoscimento, la durezza di un dato di fatto. Questo pur nell’ambivalenza di ogni fenomeno politico e di socializzazione, e nell’ambiguità che ha caratterizzato la politica estera dell’Unione verso Paesi che oggi ne fanno parte, o aspirano a entrarvi. L’Europa, in questi sei decenni post-bellici, non è riuscita a mettere in atto processi virtuosi per “esportare”, appena fuori dai suoi confini, un profilo riconciliato delle relazioni umane, etniche e politiche. Ma, una volta entrati nel suo apparato, è capace di garantire un ordinamento di pace fra le nazioni che la compongono, e di sostenere la ricomposizione di ferite lancinanti dovute anche alla sua responsabilità politica e civile. In tutti i limiti dell’impresa, è proprio così che ci piacerebbe continuare a vivere: preservati dalla violenza della guerra, sapendo che le tensioni che circolano fra gli Stati europei possono essere ricomposte in ragione di vincoli comuni, che non solo impegnano ma anche supportano ogni stato dell’Unione.

Nel momento in cui l’Unione europea riceve il Nobel per la pace, il suo corpo civile e sociale è scosso da profondi riflussi conflittuali (basti pensare alle strade di Atene o di Madrid). L’asprezza delle misure necessarie all’attraversamento della crisi economico-finanziaria potrà essere sostenuta solo attraverso la riconfigurazione di un patto condiviso di cittadinanza, rispetto al quale non si può pensare in termini di deroga. Un dovere e una responsabilità di ogni cittadino dell’Unione; proprio nel tempo dello sgretolamento di un possibile riconoscimento nelle forme della rappresentanza politica. La crisi, ormai irreversibile, del moderno modus operandi della sovranità (nazionale, territoriale, giuridica) porta verso il superamento della figura contrattuale del legame sociale e del vincolo di una cittadinanza realmente condivisa. Cosa ci aspetti oltre la soglia di tale congedo non può essere predetto; ma dovrebbe essere questione cara a tutti gli europei, impresa per la quale vale la pena di investire le risorse migliori che abbiamo. Chiamandole tutte a raccolta, mettendo da parte sia antichi rancori sia nuovi sospetti.

Almeno da parte sua, il cristianesimo non può assistere inerte a questo passaggio cruciale della coesistenza umana, né attestarsi sul piano di un attendismo speculatore, volto a massimizzare i profitti a breve termine pur sempre dispensati proprio dall’incertezza degli scenari futuri. La fede cristiana deve dismettere la retorica del conflitto col moderno e le sue derive, che la chiude in un circolo vizioso di separazione e finisce con lo spossare anche i suoi rappresentanti migliori; per riapprendere la difficile arte di lavorare sui fondamentali dell’umano: quelli che decidono della qualità spirituale dell’esistere e addestrano alla bontà di un agire secondo giustizia per tutti. Il cristianesimo avrebbe in sé gli anticorpi necessari a smascherare l’infatuazione idolatrica dell’auto-rispecchiamento di sé, che consuma i nostri cuccioli ormai fin dalla culla, generandoli, per così dire, una seconda volta all’accaparramento ossessivo delle occasioni senza il benché minimo investimento di passioni e affetti in cui ne va di sé. La malinconia di legami senza durata e spessore, a geometria eternamente variabile, ci svuota dentro; e ci rende sempre più esposti alle potenze accattivanti del mercato delle offerte cosmetiche di salvezza (un ritocchino qui, un aiutino là: dal sesso all’amore, dall’amicizia alla scuola, dal corpo all’immagine sociale – sempre pagando, ovviamente).

Il cristianesimo dovrebbe riappropriarsi, in tempi brevi, di quella sapienza evangelica che gli permette di “tirar fuori dal suo tesoro cose nuove  e cose antiche” (Mt 13,52): quelle di un patto che attraversa tutte le vicissitudini dell’umano, senza ritrarsi davanti a nessuna di esse, anzi, confermandosi proprio là dove nessuna ragione sembrerebbe più giustificarlo; quelle di un debito non dispotico che ci vincola gli uni agli altri quando viviamo secondo libertà e giustizia; quelle di un legame con l’umano-comune, per il quale siamo ben disponibili a investire gli affetti più cari che abbiamo; quelle di una passione per la vita che non si consuma, non è interscambiabile e resiste a ogni ottimizzazione.

Questo è ciò che il cristianesimo potrebbe offrire all’Europa; non per fare proseliti, ma per ridestare interesse e competenze per un’intelligenza all’altezza dell’ora presente – disponendosi liberamente, secondo coscienza, rispetto alla fede; ma posizionandoci tutti sui territori di un dare credito secondo ragione e giustizia. L’Europa dovrebbe avere un interesse civile ad articolare politicamente, in tutta autonomia, questa possibilità spirituale rimessa in circolo dai profili alti del credere cristiano. Lo dovrebbe fare, proprio davanti all’evidenza che ormai tutti percepiamo: l’indebolimento commerciale del legame sociale lo sta rendendo atrofico rispetto alla generazione della qualità dell’animo e dello spirito umano; bisogna ricominciare a lavorare su di essa per dare forma a un vincolo inedito che ci tenga insieme in Europa. L’immaginazione di un patto di cittadinanza, che si porti oltre il modello logoro del contratto, è il correlato necessario per uscire dallo stallo di un presidio della “sovranità”, che è oramai poco più che fittizia, e dare così finalmente rilievo politico e dignità di istituzione all’Unione europea.