“Non c’è niente di automatico nello sviluppo dell’autonomia economica delle donne, che dipende dall’incrocio fra le trasformazioni del contesto e la capacità di mobilitazione soggettiva e politica delle attrici e degli attori storici”(p. 28). Da questo assunto parte il poderoso e attento lavoro di ricostruzione storica e sociale del lavoro delle donne realizzato da Alessandra Pescarolo (Il lavoro delle donne nell’Italia contemporanea, Viella, 2019, pp. 364). 

Ad oggi non sono mancati certamente libri o saggi sul tema, ma essi sono stati per lo più limitati a categorie professionali specifiche o relativi a un arco di tempo relativamente breve. Al contrario Pescarolo sviluppa la sua ricerca storica per un periodo che va dal secondo Ottocento ad oggi, guardando a volte anche più indietro, fino a spingersi con “un salto temporale ardito” (p. 29) al periodo paleolitico, durante il quale sarebbero esistite comunità, se non proprio matriarcali, certamente basate su un ruolo centrale delle donne nell’assicurare la sussistenza alimentare del gruppo di appartenenza. Questa “prospettiva lunga” (p. 29), per usare nuovamente le parole dell’autrice, si coniuga a un approccio che non è solo storico, ma si apre alla considerazione delle condizioni materiali, dei dati statistici e degli ordinamenti giuridici che regolano le relazioni di genere e la posizione sociale dei lavoratori. 

L’intento è di mostrare quanta sottovalutazione ci sia stata del contributo che il lavoro, la fatica e la sopportazione delle donne hanno dato all’economia e allo sviluppo dell’intero Paese e dall’altra di sfatare, smontandoli meticolosamente, stereotipi e luoghi comuni che affondano le radici in discriminazioni antiche che hanno ancora una certa presa nell’immaginario attuale.

Nel raccontare la lunga diacronia della storia di genere e del lavoro in Italia, Pescarolo parte da alcuni assunti e si pone diversi obiettivi. Gli assunti sono quelli delle radici dello scarso valore attribuito al lavoro delle donne, che l’autrice ricerca nell’antica Grecia e poi nell’antica Roma, laddove si afferma la netta separazione fra attività militari e politiche come ambito maschile, che definiscono i tratti della virilità e si collocano tutte all’esterno, e attività da svolgersi fra le mura di casa, dove si possono preservare la castità e l'invisibilità, che vengono decretate prettamente femminili. E se tutto ciò sembrerebbe non avere nulla a che fare con il lavoro, ne avrà invece molto soprattutto per l’interesse che si perpetuerà di continuo di ridurre l’autonomia delle donne, depotenziandone i talenti produttivi e influenzando tutta la storia successiva. 

“L’attivismo femminile – scrive Pescarolo – fu costretto nello spazio micro di una negoziazione subalterna con il potere e, per gran parte delle donne, fu inevitabile interiorizzare la credenza nella propria genetica inferiorità. E anche quando aderirono a questa convinzione in modo strumentale, esse dovettero modulare il loro disagio nel linguaggio della minorità e di una richiesta di protezione” (p. 13).

L’idea di una genetica minorità ce la porteremo praticamente per sempre dietro. Solo per volerci limitare agli ultimi due secoli, la disponibilità delle donne a svolgere da sole mansioni poco gratificanti, monotone, non pagate minaccerà a lungo l’equità di genere e l’autonomia personale delle donne, sprecandone nel corso del tempo il capitale umano fino a produrre e riprodurre danni lì dove anche in epoche recenti trasmetteranno alle stesse figlie “un modello opaco” (p. 282) che induce alla auto-discriminazione e contribuisce a riprodurre la tradizionale dipendenza economica e psicologica.

Se l’obiettivo principale del libro è dunque quello di offrire una lettura organica del ruolo delle donne, il secondo va ricercato nel tentativo di mostrare quanto siano costruiti sul nulla buona parte degli stereotipi e delle credenze sulle donne e il loro rapporto con il lavoro. E per fare questo la conoscenza delle ideologie e delle pratiche storiche che hanno definito la diversità fra i sessi in una prospettiva di lunga durata appaiono per Pescarolo essenziali. Capire infatti i mutamenti delle ideologie delle classi dirigenti, che modulano, nascondono e cercano di regolare il lavoro delle donne nel corso degli ultimi secoli, appare una operazione preliminare per inquadrare l’intera storia. E le potenti ideologie cui la studiosa fa riferimento per tutto il corso dell’analisi sono quelle che fra Otto e Novecento danno o tolgono valore e visibilità al lavoro femminile e cioè: da un lato il patriarcato che ordina i due generi collocando gli uomini su un piano superiore e dall’altro il mercato, le sue leggi e le sue dinamiche, in cui il modello di male breadwinner costituisce il pilastro più emblematico dell’incrocio di queste due ideologie.

La storia del lavoro delle donne dal mondo antico a quello contemporaneo ha fatto luce sulla continuità plurisecolare del lavoro femminile, eppure l’andamento del riconoscimento di questo lavoro è stato poco lineare e costantemente legato sia a interessi imprenditoriali (che potevano sfruttare una manodopera pagata sistematicamente molto meno di quella maschile) sia alla paura della controparte maschile che in esse vedeva una pericolosa forza lavoro concorrente.

Nella lunga storia letta dal punto di vista femminile si può individuare una linea di continuità, sostiene Pescarolo, fra il retaggio culturale e normativo del mondo antico e gli ordinamenti giuridici che regolavano le relazioni di genere e la posizione sociale dei lavoratori nei secoli successivi.

Attenta al pericolo di sfatare uno stereotipo per costruirne un altro, l’autrice chiarisce e dimostra però che non tutte le donne lavoravano e non sempre e che il rapporto fra cultura alta e cultura bassa è stato caratterizzato da un doppio registro che non deve essere dimenticato: alle donne possidenti era impedito di lavorare fuori casa (anche per decoro e morale) mentre era scontato di converso che le povere lavorassero.

Gli stereotipi di un passato di inattività e di una presenza esclusiva in casa vengono dunque sfatati dagli studi sulla storia delle donne e il rapporto con le ideologie citate che hanno regolato il lavoro delle donne appare anche in questo senso centrale.

Da un lato dunque Pescarolo prova a smontare il luogo comune che le donne siano entrare nel mercato del lavoro solo con la modernità e con l’accesso ai diritti, dall’altro che esse siano state sempre estranee a un ideale di domesticità, a cui invece hanno teso in alcune epoche anche per sottrarsi a tempi e modi schiavistici del lavoro che svolgevano. La storia è più complicata e procede, nel corso degli ultimi due secoli almeno, in maniera non certo lineare. Ma con alcune certezze ormai. Che il doppio binario del lavoro femminile nei ceti ricchi e in quelli poveri si è riproposto fin dalla nascita delle democrazie contemporanee, che l’etica del lavoro duro, preciso e ben fatto, assieme alla paziente accettazione del suo scarso riconoscimento morale e monetario, per le donne ha continuato a persistere e si è esteso dal lavoro che esse svolgevano nei campi a quello che alla fine dell’Ottocento cominciarono a svolgere nella manifattura industriale, dai setifici in poi. Per Pescarolo “la straordinaria cultura del lavoro delle donne contadine fu la base, fra otto e novecento, di una partecipazione al lavoro intensa e persistente, argine principale alla diffusione del modello male breadwinner” (p. 22).

Molti sono gli spunti di riflessione che la lettura del volume suggerisce anche in relazione alle vicende del Novecento e fino agli anni a noi più vicini come – per dirne solo uno – il fenomeno di riduzione del gender gap, definito purtroppo frutto di una uguaglianza verso il basso che certo non consola. Non possono essere qui ripresi tutti e per questo si rimanda alla lettura del volume.

Tuttavia vale la pena di richiamare solo due elementi ancora che percorrono tutto il lavoro. Da un lato la constante tensione che la studiosa mostra alla ricerca delle più recenti e attente revisioni storiografiche che le servono a suffragare le tesi che avanza e dall’altra l’enorme attenzione che ella dedica alle trasformazioni e al ruolo che le statistiche hanno svolto nel raccontare il declino (e in epoca recente l’aumento) del lavoro delle donne nel corso dell’ultimo secolo. Fin dai primi censimenti della fine dell’Ottocento, afferma Pescarolo, i dati statistici furono piegate a descrivere la realtà conciliandola con la lettura teorica delle società e dell’economia e questo stato di cose è rimasto immutato per lungo tempo. Nel tentativo di adeguarsi al paradigma dell’economia politica neoclassica ad esempio con il nuovo secolo quelli che furono considerati lavori (per il mercato) e quelli che non lo erano più giocarono un ruolo essenziale nella riduzione dei tassi di occupazione o di attività delle donne. Insomma da un lato la realtà della fabbrica era per certi versi una realtà che maschilizzava il mondo del lavoro della produzione (ma solo in certi settori e non in altri) e dall’altro le nuove definizioni contribuirono a disegnare un paese in cui massiccia era la fuoriuscita delle donne dal mercato del lavoro che non sempre corrispondeva al vero.

Certo non era facile restituire in maniera inclusiva e non gerarchizzata la variegata gamma di condizioni professionali che erano un continuum più che una contrapposizione di specializzazione, ma di fatto così avvenne e penalizzò il peso il ruolo e anche la forza contrattuale delle donne lavoratrici. Per inciso va ricordato che in alcuni casi le braccianti occasionali, le lavoratici a domicilio, le operaie delle “fabbriche del sudore” misero in atto delle vere e proprie “lotte di classificazione” per vedersi riconosciuto lo status di lavoratrici e fruire dei servizi di Welfare e diritti di cittadinanza sociale, affrontando il problema della conciliazione fra vita professionale e lavorativa prima della nascita del femminismo. La mancanza di una lettura di genere del lavoro ha omesso da un lato il ruolo essenziale svolto dalle donne ma ha soprattutto fatto dimenticare quanto la loro esclusione e scarsa considerazione sia stata colpevole e frutto di paura della forte concorrenza che esse potevano svolgere e della indipendenza che ne potevano ricavare; ne è derivato uno stato di avanzamento discontinuo e frammentario del loro ruolo e del riconoscimento salariale e simbolico del valore della loro persone e del loro lavoro che ha pesato profondamente sull’andamento della società tutta e che e ha determinato il continuo svantaggio in cui esse sono state tenute.