Dal momento in cui il presidente francese Emmanuel Macron ha annunciato l’obbligatorietà, a partire da agosto, del green pass per accedere ai luoghi pubblici e usufruire dei trasporti a lunga distanza è nato un acceso dibattito sulla possibilità di replicare in Italia questo modello e sulla sua legittimità. Fino a ora, la discussione pubblica è stata caratterizzata in prevalenza dallo scontro tra due prospettive: da una parte chi si dice contrario in nome della libertà individuale; dall’altra i favorevoli, che si appellano più spesso all’interesse della collettività.

Ovviamente, qualsiasi decisione del governo sarà guidata da considerazioni pragmatiche, di natura economica e politica. Ma il tema solleva anche importanti questioni di principio da un punto di vista filosofico. La filosofia non può indicarci come sostenere la ripresa economica, né suggerire i trattamenti sanitari più efficaci contro il virus. Può però svolgere un importante ruolo pratico nel dibattito pubblico, come già sottolineava John Rawls (Liberalismo politico, trad. it. Einaudi, 2012): aiutarci a riordinare in modo coerente i nostri valori e le nostre più profonde convinzioni sulla giustizia, portando un po’ di chiarezza nella discussione pubblica. Vale perciò la pena chiedersi: l’obbligo di certificato vaccinale per accedere a strutture pubbliche è davvero una misura liberticida, che ci costringe a derogare a principi basilari delle nostre democrazie?

Uno dei più importanti ideali del liberalismo è il cosiddetto «principio del danno», proposto da John Stuart Mill nel suo Saggio sulla libertà. L’idea di base è molto semplice: la condotta individuale può essere legittimamente sottoposta a restrizioni legali solo se arreca un danno ad altre persone non consenzienti. Tutti i comportamenti i cui effetti (anche negativi) si ripercuotono unicamente sul soggetto stesso o su terze parti consenzienti non dovrebbero essere proibite dallo Stato. Così, ad esempio, i cittadini sono liberi di fumare, avere una dieta ricca di grassi saturi, o di avere rapporti sessuali non protetti. I soggetti coinvolti sono adulti e consenzienti – verrebbe da aggiungere «vaccinati», secondo la nota locuzione, ma in questo contesto risulterebbe davvero ironico – e le conseguenze delle loro azioni ricadono solo su di loro.

Chiaramente, il principio di Mill rappresenta un ideale regolativo e nella pratica esistono varie eccezioni. (Non pensiamo, ad esempio, che l’obbligo di indossare il casco in moto renda automaticamente un Paese illiberale, sebbene gli effetti di questo comportamento ricadano solo su chi lo adotta.) Inoltre, non è sempre facile stabilire cosa possa essere considerato un danno ad altri e cosa no. Nel dibattito pubblico, per esempio, c’è anche chi ha sostenuto che, non vaccinandosi in tempo di pandemia, si danneggiano altre persone poiché si corre un rischio maggiore di ammalarsi e gravare sul sistema sanitario nazionale. Questa è un’estensione eccessiva dell’idea di Mill, per il quale vanno proibiti quei comportamenti che comportano un rischio di danno diretto (e alquanto probabile) ad altri; ma è innegabile che ci sia disaccordo tra filosofi su alcuni casi specifici. Tuttavia, al netto di queste difficoltà minori, il principio di Mill è generalmente condiviso dai liberali.

Quando con il proprio comportamento si procura un danno a un’altra persona che non aveva acconsentito a correre quel rischio, potremmo dire che ci si concede un «eccesso di libertà», creando una disuguaglianza tra la propria libertà e quella dell’altro.

L’obbligo di certificato vaccinale per accedere a strutture pubbliche è davvero una misura liberticida, che ci costringe a derogare a principi basilari delle nostre democrazie?

Avendo presente questo ideale, proviamo ora a riflettere sulla proposta di restringere alcune libertà di coloro che decidono di non vaccinarsi contro il Covid-19. È possibile ottenere il green pass anche se si è guariti dalla malattia o attraverso un tampone negativo nelle ultime 48 ore, ma – come dimostrano le polemiche in Francia, Italia e altri Paesi – è il vaccino il vero nocciolo della discussione.

Coloro che si oppongono a questa misura reclamano il diritto di scegliere autonomamente i trattamenti sanitari a cui sottoporsi. La scelta di non vaccinarsi – argomentano – è equiparabile a quella di fumare: danneggia unicamente chi la compie, mentre gli altri sono liberi di adottare comportamenti più «virtuosi» e sicuri per la salute. In secondo luogo – potrebbe sostenere qualcuno – anche la presenza potenzialmente dannosa di persone non vaccinate in bar, cinema o teatri non è condannabile in base al principio di Mill. Lo si potrebbe paragonare – direbbe l’oppositore del green pass – al sesso non protetto tra persone consenzienti, poiché se una persona si reca in questi luoghi acconsente implicitamente a correre il rischio di essere contagiato.

Di questi due argomenti il primo è banalmente falso: la vaccinazione non solo protegge spesso il soggetto dall’ammalarsi (soprattutto lo protegge dall’ammalarsi gravemente), ma – è ormai chiaro da un’ampia letteratura – riduce notevolmente anche la possibilità di contagiare chi gli è accanto. Inoltre, gli esperti hanno ampiamente chiarito che quanto più il virus circola tanto più è probabile che, di variante in variante, la stessa protezione del vaccino possa perdere efficacia. Di conseguenza, è alquanto difficile affermare (in buona fede) che la scelta di non vaccinarsi non comporti maggiori rischi per le altre persone.

Più interessante da discutere è il secondo argomento. Sebbene sia forse altrettanto estremo (e, a mio parere, sbagliato), potrebbe avere di primo acchito una qualche parvenza di plausibilità. In fondo, nei contesti in cui interagiamo con altre persone ci esponiamo spesso ad alcuni rischi: se un pedone cammina in una strada in cui transitano molte macchine ha chiaramente più probabilità di essere investito che se passeggiasse in un bosco isolato. In casi come questo il soggetto si espone volontariamente al rischio, assumendosene la responsabilità.

Tuttavia, a un esame più attento, anche questa seconda argomentazione si rivela fallace. E proprio la metafora automobilistica può aiutarci a confutarla (e a chiarire cosa va inteso come danno in prospettiva «milliana»). Il lettore ricorderà che il principio cardine del liberalismo è di garantire il più alto grado di libertà personale compatibile con l’uguale libertà di tutti. È vero, come abbiamo detto, che diversi comportamenti possono implicare un aumento dei rischi per le altre persone; ma ci sono attività che accrescono talmente tanto la probabilità che gli altri siano danneggiati da essere incompatibili col rispetto della loro libertà.

Un automobilista che si destreggia nelle vie di una città comporta certamente un rischio per i pedoni. Ma se rispetta il codice della strada questo rischio rimane abbastanza contenuto da garantire la libertà di tutti – tanto di chi si sposta in macchina, quanto di chi va a piedi. Se, al contrario, sfreccia in un centro abitato a 75 km/h o è intento a guardare il cellulare, il suo comportamento aumenta indebitamente il pericolo dei passanti, di fatto creando loro un danno: non è detto che li investa, ma il rischio che ciò accada diventa talmente alto da essere insostenibile per una persona ragionevole.

L’automobilista irrispettoso potrebbe obiettare che, per evitare pericoli, la gente potrebbe semplicemente astenersi dall’andare a piedi. A parte il fatto ovvio che così facendo renderebbe la vita rischiosa anche per gli altri automobilisti, il ragionamento è viziato da un errore madornale: non si può affermare che qualcuno si esponga volontariamente a un rischio se per lui sarebbe molto costoso (o addirittura quasi impossibile) evitarlo. È assurdo che, per non essere investita, a una persona si richieda di non uscire di casa. Al contrario, l’automobilista può pacificamente ridurre la sua velocità senza che venga intaccato il suo diritto di muoversi (sulla distinzione tra rischi volontari e involontari si veda C. Sunstein, Quanto rischiamo. La sicurezza ambientale tra percezione e approccio razionale, Edizioni Ambiente, 2004).

Non si può affermare che qualcuno si esponga volontariamente a un rischio se per lui sarebbe molto costoso (o addirittura quasi impossibile) evitarlo

Lo stesso ragionamento vale per la persona non vaccinata: non può pretendere di danneggiare gli altri, aumentando il loro rischio di essere contagiati, affermando che, semplicemente, possono rimarsene in casa. Ancora una volta, il costo che le persone dovrebbero sobbarcarsi per evitare il (probabile) pericolo sarebbe troppo elevato: inficerebbe, di fatto, il loro diritto a vivere e muoversi in sicurezza. In questo modo non sarebbe rispettata l’uguale libertà di tutti i cittadini. Diversamente, quando tutti avranno la possibilità di vaccinarsi in tempi brevi (senza lunghe liste di attesa), l’«oppositore» potrebbe ridurre quel rischio agevolmente, assumendo un farmaco di cui i migliori dati a nostra disposizione testimoniano la sicurezza.

È facile rendersi conto dell’analogia tra la libera circolazione in tempi di pandemia e la guida di un’automobile. Entrambe le attività non sono prive di rischi. Ma attraverso i dovuti accorgimenti è possibile renderli ragionevoli: come riconosciamo la legittimità del codice della strada e della patente (una licenza che certifica la minor probabilità che il guidatore causi incidenti), così sembrano accettabili l’obbligo dei dispositivi di protezione e il green pass, che certifica la minor probabilità che il soggetto sia veicolo di contagio. In questo modo è possibile garantire la massima libertà compatibile con l’uguale libertà di tutti.