Nella sua autobiografia, John Stuart Mill si sofferma diverse volte sulla propria esperienza politica, dapprima come amministratore e poi quale membro del Parlamento. In uno di questi passaggi, scrive che l’aver acquisito familiarità con le difficoltà che si incontrano nell’ottenere il consenso, e nel motivare grandi numeri di persone, lo ha portato a confrontarsi con “le necessità del compromesso, l’arte di sacrificare il non essenziale per preservare l’essenziale”.
Queste pagine di Mill sono di particolare interesse per noi, in un momento in cui proprio la necessità di un compromesso tra forze politiche che fino a ieri si sono combattute aspramente e che ancora oggi, pur avendo dato vita a un governo di coalizione, diffidano l’una dell’altra, è oggetto di controversia. Non sono poche le persone di entrambi gli schieramenti che vedono nell'accordo che ha portato alla nascita del governo presieduto da Enrico Letta il segno del tradimento. Che lo accettano a fatica, convinte come sono che esso sia figlio di una mancanza di rispetto nei confronti degli impegni presi con gli elettori.
Mi sembra particolarmente appropriato, in questo contesto, non eludere il problema posto da questi sentimenti. Chiedersi, nello spirito di Mill, se è proprio vero che la ricerca del compromesso in politica sia incompatibile con la fedeltà ai principi.
Nel liberalismo moderno, questo è un tema ricorrente sin dai tempi della Rivoluzione francese: quando, in reazione al radicalismo giacobino, Edmund Burke difese il compromesso come uno dei fondamenti della saggezza pratica, un requisito indispensabile del politico che abbia a cuore la stabilità e l’ordine di un regime democratico. Mi rendo conto che richiamare Burke non è una mossa argomentativa felice per chi voglia difendere le ragioni del compromesso in politica. Questi è senza dubbio un liberale, ma il suo è un liberalismo conservatore, che ha poche possibilità di far breccia nelle coscienze di coloro che si riconoscono nei valori egualitari della sinistra. Tuttavia, credo che sia opportuno partire da Burke perché è a questi che dobbiamo una delle analisi più sottili della sterilità di un modo di concepire il cambiamento sociale che prescinde dalle condizioni reali, e che si illude che sia possibile, attraverso la politica, promuovere una palingenesi morale. L’elogio del compromesso di Burke ci ricorda che la saggezza in politica consiste nel non perdere mai di vista i sentimenti, le convenzioni, la vischiosità delle pratiche e delle istituzioni. Nel non sottovalutare la forza dell’abitudine, e la relativa impotenza della ragione in politica, che quasi mai riesce da sola a motivare il cambiamento.
Ciò detto, non è certo Burke l’unico pensatore liberale a fare i conti seriamente con la necessità del compromesso. Una delle riflessioni più interessanti e profonde su questo tema è stata scritta, infatti, da un altro intellettuale, seguace di Mill, che ha avuto un’influenza profonda sull’opinione pubblica progressista nel Regno Unito tra la fine del diciannovesimo secolo e l’inizio del ventesimo. Si tratta di John Morley, il cui On Compromise (1874) è stato una lettura obbligata per generazioni di liberali. Morley non è affatto un difensore dell’ordine tradizionale, ma riconosce l’inevitabilità, e persino l’effetto benefico, del compromesso, e raccomanda una disponibilità a ricercarlo ai riformisti, a chi non vuole rinunciare a battersi per migliorare le condizioni di vita di chi sta peggio. Nel suo libro, Morley precisa che il punto essenziale è saper riconoscere quale sia “il giusto tipo di compromesso”. Un’idea che è stata ripresa in vario modo da diversi autori contemporanei, da John Rawls a Avishai Margalit. Credo che quella posta da Morley sia la questione cui dovremmo rispondere oggi in questo Paese. Non se il compromesso sia necessario, ma quale sia il giusto compromesso.
Non è questa la sede più adatta per entrare nel merito di un simile, spinoso problema. Mi limito dunque a una considerazione di metodo, rimandando l’approfondimento alla discussione con i nostri lettori, che spero reagiranno numerosi alla mia sollecitazione. Un compromesso che nascesse soltanto dalla momentanea impossibilità di sopraffare l’avversario, che sia quindi solo una strategia dilatoria, in attesa di ritrovarsi in una posizione di vantaggio, sarebbe quello che Margalit chiama un “rotten compromise”, un “compromesso marcio”, destinato a produrre frutti avvelenati. Un compromesso virtuoso richiede un riconoscimento della buona fede dell’avversario e una disponibilità genuina a trovare dei punti di convergenza sulle politiche, anche a costo sacrificare in parte la propria concezione del bene comune per fare posto a quella degli altri. Mi rendo conto che le condizioni attuali della politica italiana, e in particolare la natura anomala di una delle formazioni presenti in Parlamento, che ha un leader carismatico il quale ha dato più di una volta prova di concepire il proprio ruolo come quello di un “proprietario” piuttosto che di un rappresentante, rendono il percorso cui alludo particolarmente difficile. Ciò nonostante, sono convinto che questa sfida vada accolta, non rifiutata. In primo luogo da chi ha accettato l’oneroso compito di assumere un incarico di governo. Prendere decisioni insieme può avere un grande valore se questa attività non viene vissuta soltanto come un espediente strategico. Restituire respiro e dignità alla democrazia come forma di deliberazione collettiva potrebbe essere il primo passo per uscire dalla crisi.
Riproduzione riservata