Il dibattito pubblico italiano appare ipnotizzato dalla “grande riforma istituzionale” almeno da 45 anni, cioè da quel 28 settembre 1979 in cui sull’“Avanti” – testata socialista onusta di gloria e di travagli – un articolo di Bettino Craxi offriva l’onore della priorità nell’agenda politica italiana alla riforma della Costituzione, partendo dalla forma di governo. A Craxi non riuscì di imporre al Parlamento un impianto di revisione della Carta, ma da allora, con andamento rapsodico nella cosiddetta Prima Repubblica e poi a cadenza fissa e quasi ossessiva nella Seconda, ogni leader politico che abbia abitato almeno per un poco le stanze di Palazzo Chigi non ha saputo resistere alla tentazione di legare il suo nome alla “grande riforma”. La furia ri-costituente, pertanto, ha portato a interventi sul corpo dell’impianto costituzionale, con l’esito ineluttabile del ricorso al voto referendario ai sensi dell’articolo 138 della Costituzione e con il coinvolgimento diretto del popolo sovrano nella scelta dell’accoglimento o della reiezione delle riforme varate dal Parlamento.
L’aria che tira anche questa volta, di fronte alla revisione costituzionale che coinvolge la forma di governo voluta dalla presidente Meloni, sembra dunque condurre ineluttabilmente a una nuova consultazione referendaria.
Com’è noto, il referendum è un istituto di democrazia diretta che il nostro ordinamento giuridico mette a disposizione per più cose: c’è quello abrogativo, previsto dall’articolo 75 della Costituzione per cancellare in tutto o in parte una legge o un atto avente valore di legge, strumento abbastanza usato (e forse abusato: 72 volte) grazie soprattutto alla prassi politica radicale; c’è il referendum “istituzionale”, che nel lontano ‘46 portò gli italiani a preferire la Repubblica alla monarchia (adoperato, ovviamente, solo in quella occasione); c’è stato pure un referendum d’indirizzo, nel 1989, per conferire al Parlamento europeo il mandato costituente, dichiarando, con l’88% dei sì (e l’80% degli aventi diritto recatisi alle urne), la nostra incrollabile fede europeista (tempi lontani anni-luce, sembrerebbe); c’è, inoltre, il referendum costituzionale, previsto dall’articolo 138 della Costituzione, quello che, appunto, potrebbe tenersi per confermare o bocciare la meloniana “madre di tutte le riforme”, che ha avuto quattro precedenti nella storia repubblicana, a partire dal 2001. Ecco, allora la domanda, che cosa dice la storia ultraventennale dei referendum costituzionali?
Piccola premessa, che poi è la tesi di questo articolo: potrà apparire sorprendente, ma questo importante strumento di democrazia diretta, chiamato in causa dai costituenti per correggere effetti indesiderati della democrazia delegata, in realtà ha quasi sempre confermato l’orientamento prevalente delle forze politiche sostenitrici o oppositrici della scelta referendaria. Così, tanto per capirci, fu con il referendum abrogativo del divorzio cinquant’anni fa, che approvò il mantenimento della legge Fortuna-Baslini con il 59,3% dei suffragi, a fronte del 40,7%, essendo quest’ultimo valore il frutto della confluenza dei consensi di solo due partiti, la Dc e il Msi (con qualche punticino percentuale perso rispetto al voto raccolto alle politiche), a fronte del resto del mondo, rappresentato dallo schieramento di tutti gli altri partiti divorzisti.
Torniamo allora ai referendum costituzionali. La vulgata racconta che gli italiani abbiano manifestato una tendenza al conservatorismo costituzionale valutando il merito dei quesiti proposti. A noi sembrerebbe che sia sempre prevalso, piuttosto che il merito, la questione politica sul sì o il no al governo “proponente” la riforma costituzionale, allineando consensi e dissensi che, ancora una volta, confermavano la forza degli schieramenti politici.
Piuttosto che il merito dei quesiti proposti dai referendum, a prevalere è stata la questione politica sul sì o il no al governo “proponente” la riforma costituzionale
Una verifica? Nel primo referendum costituzionale, quello del 2001, si votava pro o contro la riforma del titolo V della Carta che devolveva maggiori poteri alle Regioni (rendendo possibile l’autonomia differenziata di cui si discute oggi). Venne approvata, a fronte di una bassissima affluenza (solo il 34%). A ben vedere l’area del centrosinistra che aveva varato la riforma (implementata dagli oppositori di Berlusconi) e quella del centrodestra al governo si equivalevano (oltre 18 milioni di voti raccolti alle politiche di qualche mese prima). Ma nel governo Berlusconi c’era anche la Lega di Bossi (col suo milione e mezzo di voti) che, pur non sostenendo ufficialmente la riforma, neanche l’osteggiava, considerando i suoi contenuti. Nel 2006 toccò alla riforma Berlusconi, un’ampia rivisitazione degli assetti di governo guardando a suggestioni presidenzialistiche: non passò, prevalendo l’alleanza di centrosinistra al governo e il poco entusiasmo degli alleati di Silvio Berlusconi. Dieci anni dopo toccò a Matteo Renzi con la sua grande riforma istituzionale: perse con il 40,88% contro il 59,12%: le stesse percentuali di Fanfani col divorzio. Dalla sua aveva il Pd delle europee 2014 intorno al 40,81%, contro lo scetticismo dei suoi alleati e l’ostilità delle opposizioni, che colsero al balzo la scelta compiuta dal premier di identificare sé stesso con la riforma. Renzi, coerentemente, lasciò, dopo la sconfitta, Palazzo Chigi.
Infine il taglio dei parlamentari del 2020: quasi il 70% degli italiani disse sì. E, in fondo, si trattò dell’unico risultato che fece registrare una certa ribellione all’orientamento della politica: tutti i partiti erano d’accordo. Alla Camera solo 14 deputati votarono contro. Solo il 2,4%, dunque. Gli italiani che dissero no furono più del 30%. Come dire: “Se i politici fanno qualcosa che può piacere alla gente gatta ci cova…”.
La storia dell’istituto referendario, di tutte le 78 consultazioni tenutesi, a prescindere dalla specifica natura dello strumento di democrazia diretta, dunque, racconta una insospettabile consonanza tra popolo e partiti politici. La circostanza forse poteva essere ritenuta usuale al tempo dei grandi partiti di massa, quando almeno il 10% dei cittadini iscritti alle liste elettorali era anche aderente a qualche partito, mentre appare meno scontata nelle stagioni a noi più prossime, governate dallo spaesamento politico e dalla crisi mortale della forma-partito. È come se la vertigine della democrazia diretta non avesse mai cessato di cogliere di sorpresa il corpo elettorale (largo o ristretto che fosse), non particolarmente entusiasta di un interpello relativo a questioni – specie nei quesiti dei referendum abrogativi – complesse e soventemente avvolte dalla nebbiolina distanziante della tecnicalità. E allora, di fronte alla complessità del quesito, la scelta di affidarsi ai partiti già votati alle politiche diventava una necessità non eludibile.
Di fronte alla complessità del quesito, la scelta di affidarsi ai partiti già votati alle politiche diventava una necessità non eludibile
Basterebbe ricordare alcuni risultati per avere conferma dell’affidamento che i partiti politici, e per essi l’operato della rappresentanza parlamentare, hanno avuto da parte del corpo elettorale anche relativamente a tematiche di contenuto etico o di speciale sensibilità politica. Credo che i quesiti referendari simmetrici e opposti, promossi dal Movimento per la Vita e dai Radicali nel 1981, l’uno per restringerne la portata e l’altro per allargarla, bocciati rispettivamente con il 68% e l’88,4% dei no (con conseguente avallo della legge 194 in vigore) raccontino abbastanza la tendenza. Vero è che nel 1987 passò di slancio il referendum contro le centrali nucleari indetto dai radicali e quello che prevedeva la responsabilità civile del giudice voluto da Radicali socialisti e liberali (un’alleanza dunque non maggioritaria, almeno sulla carta), ma nessuno può ricordare di aver visto altri schieramenti sulle barricate per sostenere il nucleare o i magistrati. Piuttosto il silenzio.
In questo quadro si colloca il quesito radicale del 1978 che intendeva abolire il finanziamento pubblico ai partiti, bocciato in prima battuta ma accolto nel 1993. Si trattò, in questo secondo caso, di un’approvazione avvenuta in un contesto anomalo: era in un bouquet di quesiti promossi dai radicali e da Mario Segni in cui campeggiava la riforma elettorale maggioritaria presentata alla pubblica opinione come lo strumento per contrastare il malaffare in politica, avendo sullo sfondo la triste epopea di Tangentopoli, il tramonto dei partiti di governo e l’impegno di tutti gli altri a sostenere il trapasso storico da un sistema ad egemonia democristiana ad altro. Comunque l’epopea referendaria ebbe il suo apice negli anni Settanta proprio a rimorchio dei quesiti elettorali che spazzarono via la forma-partito della Prima Repubblica. Già nel crepuscolo degli anni Novanta l’estenuazione dei ricorsi pannelliani alla democrazia diretta e insieme l’eterogeneità delle materie offerte alla valutazione del popolo sovrano (1997: obiezione di coscienza e carriera dei magistrati, abolizione dell’ordine dei giornalisti e abrogazione del ministero dell’Agricoltura, alcune tematiche reiterate anche nel 2000) si rese manifesta con il mancato raggiungimento del quorum che restò lontano per tutto il primo decennio del nuovo secolo, nelle quattro tornate referendarie del 2000, 2003, 2005 e 2009.
E se i referendum sull’acqua nel 2011 sembrarono rinverdire più antichi fasti partecipativi, superando di quasi cinque punti la soglia di validazione, quelli del 2016 (contro l’estensione delle concessioni per estrarre petrolio in mare) e del 2022 (in prevalenza quesiti sulla magistratura, tra cui separazione delle carriere), tutti promossi da nove consigli regionali, non raggiunsero la soglia mantenendosi su quote partecipative molto basse: il 31,2% il primo e poco più del 20% il gruppo del 12 giugno 2022. Una certa torpidezza, dunque, segnò anche la democrazia diretta.
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