Il decreto legge n. 4 del 2019 contiene i provvedimenti più “identitari” tra quelli contenuti nel “contratto di governo”, espressione di sensibilità diverse dei partner della maggioranza e dalle platee e dagli elettorati differenti. Tuttavia, nella narrazione dell’esecutivo, il reddito di cittadinanza, da un lato, e le misure riguardanti le pensioni, dall’altro si tengono insieme.
Quota 100 e gli altri provvedimenti previdenziali di contorno dovrebbero liberare, in un triennio, circa un milione di posti di lavoro. Tale esodo di massa servirebbe ad agevolare gli esiti delle politiche attive affidate alle risorse e alle procedure del reddito di cittadinanza, che sono rivolte non solo a contrastare la povertà ma anche a promuovere interventi formativi (anche tramite lavori socialmente utili), di orientamento, di outplacement e avviamento al lavoro. Il vero motivo ispiratore di questi due interventi nasce, paradossalmente, da una visione negativa del lavoro (“lavorare stanca”) secondo la quale a chi è stato occupato stabilmente occorre concedere la possibilità di “liberarsi” il prima possibile (con una pensione media, secondo le stime, di circa 28 mila euro lordi annui, se dipendente) mentre a chi è inoccupato o disoccupato lo Stato deve assicurare la possibilità di vivere – lui e la sua famiglia – anche senza lavorare, in attesa di ben tre proposte di lavoro, a differente distanza nel territorio, in un arco temporale definito.
Il Reddito di cittadinanza (RdC). Se si volesse illustrare il RdC in una forma icastica basterebbe lo schizzo di un Frecciarossa che traina una carriola: nella realtà dopo pochi istanti il legame si spezzerebbe ed ogni vettore se ne andrebbe per la sua strada. Fuor di metafora, la vettura ferroviaria corrisponde all’erogazione dell’assegno. Per poterlo corrispondere ci vorrà quasi certamente più tempo di quanto il decreto non indichi, ma l’Inps riuscirà a farlo prima delle elezioni europee. La carriola rappresenta l’insieme delle politiche attive, soprattutto nel Mezzogiorno dove vi sarebbe maggiore necessità, ma le strutture sono nettamente inadeguate.
L’erogazione del Rdc ha tempi diversi da quelli necessari per formare e dare lavoro a un inoccupato. Nel decreto si affidano compiti a piattaforme informatiche ora inesistenti; si assumeranno, mediante forme e procedure acrobatiche al limite della legalità e in conflitto con le Regioni, migliaia di persone – i tutor ora ribattezzati navigator – veri e propri formatori da formare, la cui competenza è solo presunta. Ma fare il tutor/navigator non è cosa da poco: occorre riuscire a fornire orientamenti, conoscendo il mercato del lavoro, non in astratto, ma nello specifico di un territorio o di un comparto economico. Come si fa a pretendere che tutto questo know how si accumuli in pochi mesi? Sembra invece che vi sia un automatismo nell’offrire un’occasione di lavoro in rapida successione, anche laddove tali posti non ci sono.
Inoltre, i soggetti a cui si riferisce il provvedimento hanno caratteristiche e profili diversi: il povero bisognoso di inclusione sociale, con handicap culturali e formativi (che ogni giorno, essendone in grande misura privo della necessaria strumentazione ed impreparato a servirsene, dovrebbe consultare online una banca dati ancora immaginaria), non è gestibile come il disoccupato, uscito temporaneamente dal mercato del lavoro. Quale imprenditore – anche a fronte degli incentivi previsti – assumerebbe a tempo indeterminato il primo? È perciò problematico escludere altre forme di assunzione (in particolare il contratto a tempo determinato) che pure costituiscono le tipologie più frequenti di accesso al lavoro. Il monitoraggio delle assunzione successive al “decreto dignità” dovrebbe dare utili indicazioni in merito.
Vi è poi una sostanziale sottovalutazione della complessità delle politiche per l’impiego. Il decreto, negli strumenti individuati, non si pone adeguatamente il problema del mismatch tra domanda e offerta di lavoro che è una delle principali cause della disoccupazione (in particolare giovanile) e uno degli aspetti più difficili da risolvere perché si proietta alle radici dei processi formativi, a partire dalla scuola. L’occupabilità della persona è non solo un requisito ma una precondizione di ogni politica di outplacement. Ed è azzardato pensare che un neolaureato in psicologia, assunto con un rapporto precario, ancorché insignito della qualifica di navigator, abbia quella esperienza necessaria per recuperare gli svantaggi di un disoccupato di lungo periodo o di una persona che ha vissuto ai margini del mercato del lavoro o che non ha un’adeguata formazione di base. La stessa logica vale quando si deve sostituire – avverrà soprattutto al Nord – un lavoratore anziano prepensionato. In questo caso, non sarebbe male tener conto delle dinamiche demografiche, porsi il problema se tali “sostituti” vi siano in numero adeguato oppure se quelli che escono siano più numerosi di quelli che possono o vogliono entrare. Ovvero che l’offerta non sia in grado concretamente di soddisfare la domanda, non solo sul piano della qualità professionale, ma anche per la quantità ossia la brutale logica dei numeri. In sostanza, al di là della buona volontà, è evidente la tentazione di fornire soluzioni semplici a problemi complessi. Il grave stato dei Centri per l’impiego potrebbe diventare la causa di una disarticolazione del reddito stesso: dopo il primo tempo, il riconoscimento e l’erogazione dell’assegno da parte dell’Inps, il secondo tempo – quello delle politiche attive – rischia di partire con grave ritardo o addirittura mai. Verrebbe allora in evidenza il principale difetto del reddito di cittadinanza: quello di tenere insieme uno strumento di lotta alla povertà e di inclusione sociale con un programma di accesso o di ricollocazione nel mercato del lavoro. Una condizione di povertà ai confini con l’indigenza (considerati i requisiti reddituali richiesti) è un fenomeno ben più complesso della disoccupazione ed anche dell’inoccupazione.
Vi sono situazioni di disagio che non si recuperano con un corso di formazione. Soprattutto non basta varare delle leggi pensando che esse producano automaticamente quegli effetti per cui sono state disposte. Le difficoltà si presentano quando le norme devono misurarsi con la gestione ovvero con le persone, la loro preparazione, le risorse e gli strumenti a disposizione. È forte il rischio che i centri per l’impiego rilascino nella ricerca di un posto di lavoro, una cambiale a babbo morto e che i percettori non se ne lamentino, perché nel frattempo il reddito continuerà ad essere erogato. Sarebbe stato preferibile il potenziamento del Reddito di inclusione (ReI), sia in termini di risorse che di platee di assistiti. Quanto alle politiche attive, già nella legislazione vigente erano previsti interventi formativi e promozionali a favore dei disoccupati, opportunamente organizzate sulla base di precise condizionalità. Inoltre, anziché ricorrere ad integrare, attraverso il reddito di cittadinanza a carico della spesa pubblica, i bassi salari del “lavoro povero” sarebbe stato meglio dare attuazione alle norme, già incluse nell’ordinamento, sull’introduzione di un salario minimo legale (è poi questa la forma di sussidio che è diffusa in Europa). Mettendo in questo modo l’onere a carico delle imprese.
Le pensioni. In tutto il mondo sviluppato si è cercato di affrontare le conseguenze delle profonde trasformazioni demografiche che hanno cambiato i rapporti tra chi percepisce la pensione e chi gliela paga, in un contesto di allungamento dell’aspettativa di vita che conduce inevitabilmente a creare uno squilibrio, nella stessa persona, tra gli anni di godimento della pensione e il concorso al finanziamento del sistema nel corso della propria attività. Tutte le riforme hanno preso di mira l’età pensionabile per adeguarla all’attesa di vita e per diminuire il numero di trattamenti e la loro durata. Nonostante che le persone continuino a vivere più a lungo e in buona salute il pensionamento anticipato è divenuto una pratica molto diffusa in Italia come in molti Paesi europei. Nel 2001, in Italia, la voce di spesa più elevata riguardava le pensioni di vecchiaia (61,7 miliardi) contro i 58,2 miliardi dei trattamenti di anzianità; nel decennio successivo è cambiata profondamente la struttura della spesa: quella delle pensioni di anzianità è aumentata del 104%, mentre la spesa per la vecchiaia del 23%. Negli anni del nuovo secolo vi è stato un incremento di circa 89 miliardi dei quali ben 60 miliardi addebitabili ai maggiori oneri per gli assegni di anzianità, mentre è di 14 miliardi il contributo alla crescita dovuto alla vecchiaia (la parte residua riguarda le altre tipologie). L’incidenza della spesa pensionistica per i soggetti in età compresa tra 55 e 64 anni è in Italia di poco inferiore al 4% del Pil (contro il 2,2% della media europea).
Appare evidente, allora, che lo scenario demografico è determinante per l’equilibrio (o meglio per uno squilibrio sostenibile) di un sistema pensionistico a ripartizione in cui diminuiscono o non aumentano in maniera adeguata per quantità e qualità i contribuenti, mentre aumentano, in quantità e qualità, i pensionati con una prospettiva di un più lungo periodo di riscossione del trattamento; tutto ciò nel contesto di uno scenario socio-economico peggiore, a causa della crisi, di quello preso a base, dopo la riforma Dini del 1995, delle proiezioni degli andamenti futuri.
Il decreto legge n. 4 del 2019 all’esame del Senato mette a soqquadro tutti gli sforzi – spesso inadeguati e contraddittori – fino ad ora compiuti, per tenere sotto controllo la spesa pensionistica. E lo fa per motivi del tutto discutibili. In sostanza, tralasciando le misure minori (come opzione donna), il decreto istituisce un canale sperimentale e temporaneo (2019-2021) di accesso alla pensione anticipata facendo valere “quota 100” (62 anni di età + 38 di contributi, requisiti concorrenti e ambedue necessari). Il canale “ufficiale” per la pensione anticipata disposto dalla riforma Fornero a prescindere dall’età anagrafica, viene congelato fino al 2026 a livello dei requisiti richiesti nel 2018 (42 anni e 10 mesi per gli uomini un anno in meno per le donne). In sostanza, già da quest’anno non si applica l’adeguamento automatico all’attesa di vita. Tale “sospensione” fino al 2026 è prevista anche per altri istituti (come i lavoratori precoci, i “quarantunisti”). Ma tali modifiche, questi innesti impropri in una pianta già debilitata, determineranno degli effetti perniciosi sul versante della maggiore spesa a fronte di un quadro di maggiori entrate invero modesto (la fonte più importante è data dai tagli di solidarietà sui trattamenti più elevati e sulla rivalutazione automatica delle pensioni). La Relazione tecnica fornisce dati inquietanti. Innanzi tutto sul maggior numero di pensioni. Solo per l’effetto di “quota 100” e delle altre misure di corollario è previsto, nel triennio della sperimentazione, un maggior numero di 973 mila trattamenti per un costo di poco superiore a 20 miliardi che salgono a 22 miliardi con l’applicazione delle altre modifiche sancite nel decreto. Saranno pensioni in larga maggioranza – soprattutto nei settori privati – percepite dai lavoratori (maschi) residenti al Nord, come sempre è avvenuto per il riconoscimento del trattamento anticipato, mentre le donne continueranno – per la loro collocazione nel mercato del lavoro, che generalmente non consente di accumulare significative anzianità di servizio – ad attendere l’accesso alla pensione secondo i requisiti previsti per la vecchiaia (in pratica a 67 anni di età più l’aggiornamento periodico all’attesa di vita).
Maggior numero di pensioni a fine anno
Anno |
Dipendenti privati |
Lavoratori autonomi |
Dipendenti pubblici |
Totale |
2019 |
102.000 |
88.000 |
100.000 |
290.000 |
2020 |
113.000 |
102.000 |
112.000 |
327.000 |
2021 |
128.000 |
112.000 |
116.000 |
356.000 |
Proiettando la spesa complessiva (come saldo tra oneri e risparmi) di tutte le misure di carattere previdenziale lungo un decennio (2019-2028) le cose si aggravano, fino a raggiungere una maggiore spesa cumulata di oltre 48 miliardi, che corrispondono a più della metà dei risparmi attribuiti nel primo decennio di applicazione alla riforma Fornero. Sono tre punti di Pil che il sistema caricherà sulle spalle dei futuri contribuenti. Ciò significa che sarà messa in discussione la sostenibilità garantita dall’intervento del 2011 e che sarà pregiudicato il “rientro”, nel medio periodo, al di sotto del 14% dell’incidenza della spesa sul Pil.
Per chiudere, alcune considerazioni sulle cosiddette pensioni di cittadinanza. Si propone di portare le pensioni basse (in genere di chi non ha mai pagato né imposte né contributi) a 780 euro netti al mese per 12 mensilità: un ammontare che è superiore a quanto guadagnano tanti giovani e molte donne (si pensi al part time) e, in termini di prestazione previdenziale, rappresenta un importo pari o superiore a quello che oggi ricevono tanti artigiani, commercianti, donne e operai che hanno versato contributi e imposte per lunghi periodi. Chi mai verserebbe ancora contributi – si chiede l’Osservatorio sulla spesa pubblica e sulle entrate di Itinerari previdenziali – sapendo che, pur evadendo o rimanendo sul divano, potrebbe contare su una pensione di 780 euro?
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