Il disegno di legge recante «Disposizioni in materia di contrasto dell’omofobia e della transfobia» (approvata alla Camera, ora in attesa del via libera del Senato) imbocca la via, già percorsa senza successo nella scorsa legislatura, di estendere all’«odio» omofobico quanto previsto dalle ll. n. 654/1975 e n. 205/1993 (cd. Legge “Mancino”). Queste leggi speciali considerano reato l’istigazione e la commissione di atti di discriminazione razziale, e aggravano la pena dei reati compiuti per motivi d’odio razziale. Di fronte a preoccupanti rigurgiti di discriminazione e intolleranza, ancora una volta le forze politiche preferiscono attribuire al diritto penale una discutibile funzione pedagogica nei confronti di settori culturalmente arretrati della società italiana, piuttosto che adottare una strategia di inclusione delle minoranze nei diritti fondamentali.
I dubbi avanzati dai commentatori più accorti sulla Legge “Mancino”, emblema di una normazione repressiva di tipo emergenziale, possono essere riproposti con riferimento al d.d.l. sull’omofobia. Perplessità che riguardano, per un verso, la sua legittimità costituzionale; per un altro, l’opportunità di attribuire alla sanzione penale una funzione promozionale di inclusione delle minoranze discriminate.
L’intervento normativo agisce su diversi versanti, punendo (a) l’istigazione a commettere e la commissione di atti di discriminazione «fondati sull’omofobia o sulla transfobia»; (b) l’istigazione alla commissione o la commissione di atti di violenza per motivi omofobici o transfobici; c) la partecipazione a gruppi o organizzazioni che abbiano tra i propri fini l’incitamento alla discriminazione o alla violenza omofobica o transfobica. Inoltre (d), il progetto di legge prevede un aggravamento della pena (cd. circostanza aggravante) per i reati commessi per finalità discriminatorie legate all’orientamento sessuale della vittima.
I dubbi di compatibilità costituzionale si concentrano sulla scelta di punire l’«istigazione alla discriminazione per motivi omofobici o transfobici»: ad apparire irragionevole è, anzitutto, l'equiparazione,quanto a trattamento sanzionatorio, dell’istigazione a commettere atti discriminatori alle azioni che integrano la commissione di atti discriminatori, che presentano, evidentemente, una diversa capacità lesiva.
È senz’altro legittimo punire comportamenti discriminatori motivati dalla paura dell’«altro» e dall’incapacità di accettare l’evoluzione dei mores. Quando, tuttavia, la sanzione penale colpisce semplici espressioni verbali è evidente il rischio di una compressione della libertà di manifestazione del pensiero, «pietra angolare» delle moderne liberal-democrazie, riconosciuta dall’art. 21 Cost.
Nel complesso emerge la consapevolezza dei promotori di muoversi sul terreno scivoloso dell’incriminazione ideologica: non è un caso che sia stata scartata l'ipotesi di colpire la mera propaganda di idee omofobiche, sulla falsariga di quanto invece previsto dalla l. n. 654/1975 sulla propaganda di idee razziste. Ciò nonostante, la punizione dell'istigazione lascia trasparire una possibile violazione della Costituzione. L’espressione verbale sotto forma di istigazione – si dice – porta con sé una pressione psicologica sulla generalità dei consociati tale da comportare il pericolo della commissione di atti discriminatori. Il legislatore realizza un giudizio ex ante dipericolosità che impedisce la valutazione, da parte del giudice, delle concrete circostanze in cui l’espressione verbale è stata resa. Non sembra remota, allora, l’eventualità che ad essere sanzionate saranno sempliciopinioni che, per quanto abbiette, sono pur sempre riconducibili alla libertà di manifestazione del pensiero costituzionalmente tutelata. Quest’ultima pone le premesse di ciò che negli Stati Uniti va sotto il nome di «discorso pubblico», uno spazio di comunicazione caratterizzato dal confronto aperto, libero e autonomo delle opinioni che rifiuta qualsiasi indottrinamento politically correct e che, per questo, considera eccezionale l’intervento del legislatore penale. Il discorso pubblico ha natura endemicamente conflittuale perché sublima le tensioni sociali in un clash of ideas salutare per la vita democratica del Paese.
Con una precisazione fondamentale: la libera diffusione delle opinioni è cosa ben diversa dall’insulto a un persona determinata, magari motivato dall’orientamento sessuale della vittima. Se dovesse essere approvato il d.d.l., in questa ipotesi scatterebbe la tutela dell’onore individuale offerta dai reati di ingiuria e diffamazione, aggravati dalla circostanza di cui supra, sub d). La libertà di manifestazione del pensiero non comprende un «diritto all’insulto»,che per sua natura rende impossibile repliche ragionevolmente argomentate. In un ordinamento costituzionale finalizzato alla protezione della persona nelle sue poliedriche proiezioni sociali, nessuno può ergersi ad arbitro dell’altrui indegnità:giudizio insindacabile sui requisiti etici dell'individuo, l’insulto può essere legittimamente punito perché degrada l’altrui autonomia morale.
L'approvazione del d.d.l. è stato possibile grazie all'introduzione del cd. «emendamento Gitti», che non considera reato «la libera manifestazione di opinioni» che non istighi «all'odio o alla violenza». Uscito dalla porta, il vulnus all’art. 21 Cost. rientra dalla finestra: l'istigazione “all'odio” è comunque una forma espressiva che, seppur estrema, non è di per sé estranea alla libertà di opinione.
Lo Stato costituzionale, infatti, pone le premesse per un processo di inclusione sociale attraverso i principi costituzionali. A meno di non accettare una pericolosa torsione in senso autoritario del sistema, questo processo non può non comprendere anche i soggetti (i razzisti, gli omofobi ecc.) che non accettano i valori di autonomia, democrazia, tolleranza intorno ai quali si è celebrato il pactum unionis della Costituzione. Non è un caso che nella scorsa legislatura le proposte iniziali di estensione della Legge “Mancino” furono poi limitate all'introduzione di una circostanza che aggravasse la pena dei reati commessi per finalità di discriminatorie legate all’orientamento sessuale o all’identità di genere della persona offesa. Questa proposta, pure respinta dall’allora maggioranza, non solo sarebbe più rispettosa della Costituzione, ma avrebbe anche maggiori chancedi successo nell’attuale contesto parlamentare, sicuramente più sensibile, rispetto al passato, alle istanze che provengono dal mondo Lgtb.
Il percorso di integrazione della comunità politica disegnato dalla Carta richiede un’azione continua, da parte dei pubblici poteri, di adeguamento dell’ordinamento alle nuove istanze provenienti dalla società. La questione “omosessuale” non può essere risolta con la tolleranza «repressiva» di marcusiana memoria, che non ha – né può avere – finalità promozionali, ma deve essere affrontata con l’aggiornamento di un ordinamento ormai desueto, incapace di soddisfare le nuove pretese di riconoscimento relative, ad esempio, allo status delle unioni omosessuali. In assenza di un coraggioso riformismo, la scarsa attenzione alla libertà di manifestazione del pensiero e ai valori fondativi dello Stato costituzionale tradisce la promessa della stessa Costituzione che, lungi dal disegnare un compromesso politico definitivo, richiede l’impegno di tutte le istituzioni nella realizzazione del pieno riconoscimento dei diritti della persona.
Sorge il dubbio, allora, che la repressione di condotte riconducibili a libertà costituzionalmente tutelate non sia che un irrisorio risarcimento, un idolo vuoto che alleggerisce la coscienza di quelle forze politiche poco sensibili alla cultura dei diritti e distanti dalle richieste emergenti dal Paese reale.
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