Che cosa può fare il diritto dinanzi all’invasione dell’Ucraina? Spesso i media confondono i piani e non distinguono il ruolo del diritto internazionale da quello del diritto penale internazionale, che ha come oggetto le responsabilità individuali per crimini internazionali. Da quest’ultima prospettiva, vi sono più possibilità di intervento.

L’Ucraina non ha ratificato lo Statuto della Corte penale internazionale, ma ne ha accettato la giurisdizione ad hoc, ex art. 12(3). Il procuratore della Corte ha annunciato l’avvio di indagini sui gravi crimini di guerra e crimini contro l’umanità ivi commessi e ha poi confermato che 39 Stati membri hanno presentato un referral congiunto al riguardo. Inoltre, un ruolo importante potrebbe essere svolto dalle Corti nazionali ucraine e dei Paesi che prevedono un regime di giurisdizione universale per i crimini internazionali, come la Germania.

Certo, checché ne dica la retorica del populismo penale, si sa che la pena non risolve i problemi sociali a monte del reato, non trasforma la società, non redime gruppi dallo stato di minorità. Senza il consenso sociale, la minaccia della pena è poca cosa. La pena è il fallimento della politica, attesta la mancata soluzione di un problema all’interno della società, attraverso confronto e dialogo. Anche il diritto penale internazionale è diritto penale; non ferma le guerre, non salva vite, non costruisce la pace, non sostituisce la politica: ne palesa il fallimento.

Il diritto penale internazionale è diritto penale; non ferma le guerre, non salva vite, non costruisce la pace, non sostituisce la politica:  anzi, ne palesa il fallimento

Il diritto penale può, invece, essere funzionale alla costruzione di un conflitto. Negli ultimi 15 anni il diritto, anche penale, è stato arma di una guerra valoriale fra la Russia e alcune ex Repubbliche sovietiche – Ucraina in primis –, che ha preceduto quella effettiva. Del resto, il diritto penale è uno strumento rozzo, con un esito binario, e si presta facilmente a lanciare messaggi, a costruire confini etici, compreso quello fra noi e i nemici.

Questa guerra preventiva si è combattuta in primo luogo sulla memoria della Seconda guerra mondiale, come evidenziato da Nikolaj Koposov nel suo Memory Laws, Memory Wars (Oxford University Press, 2017). A dire il vero, fu la Ue la prima a utilizzare il diritto e le cosiddette leggi memoriali come strumento di costruzione e tutela della memoria storica. Certo, in quel caso la memoria della Shoah aveva una funzione diametralmente opposta, inclusiva, come momento fondante di un patto etico alla base della nuova unità di un’Europa per secoli sconvolta dai conflitti. Le esperienze russa ed esteuropea, tuttavia, dimostrano che la memoria storica veicolata dalla legge può svolgere la funzione opposta. Sul fronte russo, Putin ha usato il mito della «Grande guerra patriottica» per rifondare una Russia distrutta dal 1989. Tale mito ha una forte dimensione internazionale, perché il ruolo decisivo della Russia nella vittoria sul nazismo le conferisce il diritto ad un riconoscimento universale, come pacificatrice, e una legittimazione alla conseguente occupazione.

Una legge del 2014 punisce con la reclusione, inter alia, la «negazione di fatti» relativi alle azioni dell’Armata Rossa durante la guerra e la «dissacrazione dei simboli della gloria militare» (tema centrale per il Donbass). Parallelamente, il nuovo articolo 354-I punisce la «riabilitazione del nazismo» a mezzo della negazione/approvazione dei fatti stabiliti dal Tribunale di Norimberga, nonché la diffusione di informazione false sulle attività dell’Urss durante la guerra. Si punisce inoltre la «pubblica distribuzione di informazioni che esprimono manifesta mancanza di rispetto alla società in relazione ai giorni di gloria militare della Russia e alle giornate commemorative associate alla difesa della Patria ovvero gli insulti pubblici ai simboli della gloria militare della Russia». Sono poi interventi legislativi tesi a criminalizzare l’uso pubblico dei simboli nazisti. Nella prassi giudiziaria, però, tali simboli vanno a includere anche i gruppi paramilitari ucraini che negli anni Quaranta si sono opposti ai sovietici.

La riforma costituzionale del 2020 ha poi introdotto nella Costituzione un nuovo articolo 67.1, che recita: «a) La Federazione Russa, unita da una storia millenaria, conserva la memoria dei nostri antenati che ci hanno trasmesso i nostri ideali e la nostra fede in Dio, così come la continuità nello sviluppo dello Stato russo, oltre a riconoscere l'unità statale storicamente stabilita. b) La Federazione Russa onora la memoria dei difensori della Patria, assicura la protezione della verità storica. Non è consentito diminuire il significato dell'impresa del popolo nella difesa della Patria».

L’Ucraina da 15 anni è vittima, da un lato, della mitologia dell’impero sovietico/russo e, dall’altro, della narrazione dei nazionalisti ucraini

Le politiche memoriali di Putin attraverso il diritto sono speculari a quelle di Repubblica Ceca, Ungheria, Lettonia, Lituana e Polonia, senza menzionare le battaglie nella rimozione/erezione di monumenti e nell’organizzazione dei musei sul conflitto mondiale. In particolare l’Ucraina da 15 anni è vittima, da un lato, della mitologia dell’impero sovietico/russo e, dall’altro, della narrazione dei nazionalisti ucraini, che leggono la storia del Paese come una perenne lotta per l’indipendenza contro il nemico russo, mettendo nell’ombra molte pagine oscure del movimento nazionalista. «La politica della memoria – scrive Koposov – è lo strumento principale usato dal governo Putin per dividere l'Ucraina e renderla politicamente dipendente da Mosca, per demonizzare tutte le forze "anti-russe" in quel Paese, dai liberali nazionalisti ai gruppi di estrema destra, presentandoli come "alleati nazisti"».

La contro-offensiva ucraina inizia con la presidenza di Viktor Juščenko, cui si deve la battaglia, nazionale e internazionale, per il riconoscimento del cosiddetto holodomor come genocidio. Ecco che il diritto penale internazionale, come «etichetta» dall’efficace forza comunicativa, fa il suo ingresso nella guerra memoriale e lo fa con quel crimine che più di tutti si presta a distorsioni, a battaglie fra gruppi di vittime, alla sofferenza come catalizzatore di identità nazionaliste: il genocidio. Juščenko ottenne anche una dichiarazione del Parlamento europeo, che però attribuisce all’holodomor un’etichetta penale internazionale che l’opinione pubblica considera di «serie b»: crimine contro l’umanità. In questo, la battaglia dell’Ucraina non è dissimile da quella di altre ex Repubbliche sovietiche, dalla Polonia in relazione al massacro di Katyn sino alla Lituania, che di recente ha ottenuto di vedere qualificata come genocidio, addirittura dalla Corte europea dei Diritti umani, la repressione sovietica subita. Una legge ucraina del 2006 riconosce l’holodomor come genocidio, ma Juščenko non riuscì a sanzionarne penalmente il negazionismo.

Dopo varie proposte di leggi memoriali presentate sia dai nazionalisti sia dai filo-russi, è con le 4 leggi cosiddette di «decomunistizzazione» del 2015 che l’Ucraina rinnega il paradigma memoriale russo. Di queste, una condanna i regimi totalitari comunisti e nazisti in Ucraina e criminalizza la produzione e la diffusione dei loro simboli e della loro propaganda; due leggi commemorano, rispettivamente, i combattenti per l’indipendenza dell’Ucraina nel XX secolo e la vittoria sul nazismo, e una legge garantisce l’accesso agli archivi degli organi repressivi dell’era sovietica. Scompaiono gli elementi sgradevoli e si glorificano gli eroi antisovietici dell’epoca della guerra, come Stepan Bandera, senza riconoscerne l’implicazione nell’Olocausto degli ebrei ucraini.

Dalla prospettiva italiana è interessante notare come oggi entrambi gli schieramenti squalifichino il nemico appellandolo con l’etichetta «fascista» e presentando sé stessi come liberatori antifascisti (i russi) o come eredi dei partigiani che cantano Bella ciao (gli ucraini).

Il nazionalismo di Putin che ha preparato il conflitto non si fonda solo sulla memoria storica, ma anche sul conservatorismo culturale, di cui emblematica è la legge cosiddetta «anti-propaganda gay» del 2013. Così come le leggi memoriali hanno poco a che fare con la Seconda guerra mondiale, così tale legge (pur colpendo i cittadini Lgbt), nelle motivazioni reali non si spiega con l’orientamento sessuale, bensì con la geopolitica e la costruzione di una nuova bipartizione ideologica fra Est e Ovest. Sul piano geopolitico, i diritti Lgbt (o la loro negazione) sono la nuova cortina di ferro: laddove Occidente e Russia non si possono più contrapporre sulla base di un differente modello economico o sociale, subentrano i diritti Lgbt, che da un ventennio l’Occidente ha eletto come bandiera della civiltà. L’esempio più lampante ci viene da Israele, che da anni promuove nel mondo la sua apertura alla popolazione Lgbt e che dai suoi critici – i sostenitori della teoria del Pink Washing – viene accusata di utilizzarli per trasformarli nell’unico parametro dei diritti umani, quale «asso pigliatutto» a fronte di ogni critica alle sue politiche nei territori palestinesi. Del resto, il rispetto dei diritti Lgbt segna un confine fra Israele e i Paesi arabi. Non stupiscono, quindi, le dichiarazioni del Patriarca di Mosca, che giustifica la guerra in corso con il pericolo della «propaganda gay». Per converso, l’Ucraina degli ultimi anni vede una crescente visibilità della sua comunità Lgbt, incluso l’immediato sostegno di Zelens’kyj, dopo la sua elezione, al Gay Pride del 2019.

Non è questa la sede per discutere che cosa il diritto penale debba fare ora o il rapporto fra accertamento giudiziale delle responsabilità individuali e pacificazione. Cerchiamo, almeno, di non usare le etichette del diritto penale internazionale come arma politica. Non vi è Paese che non reclami di aver subito un (reale o presunto) genocidio in chiave autolegittimante e al fine di delegittimare un nemico (compreso il nostro Paese, in una Circolare del Miur che implicitamente richiamava la categoria del genocidio per descrivere le foibe). È una pratica unificante diffusa e pericolosa, che può portare – in tempi più sereni – a riflettere sull’opportunità di mantenere tale crimine.

All’assurda gara di purezza del mantra «E l’Afghanistan? L’Iraq? La Palestina? Lo Yemen?» e via sino alla guerre puniche, ricordiamo solo l’imperfezione umana della giustizia penale, ancor più di quella penale internazionale, che dipende da presupposti politici esterni ad essa (la ratifica dello Statuto, i criteri di priorità, la cooperazione degli Stati, i fondi a disposizione). Questa parzialità non è però una scusa per rinnegare la lezione di Norimberga, per cui, a fronte degli orrori della politica, una trasformazione normativa è possibile a mezzo della responsabilità individuale e del giudizio penale. In luogo di un diritto penale funzionale a creare un nemico, serve un diritto penale focalizzato sull’umanità delle vittime (e degli autori). Non Lemkin, ma Lauterpacht. Dobbiamo riconoscere che quella è la nostra stessa umanità. La giustizia penale non sancisce la bontà delle ragioni dell’Occidente a scapito della Russia: ci ricorda, con le sue imperfezioni, il limite alla politica imposto dalla nozione di umanità.