La questione del celibato dei preti ritorna da tempo con insistenza nell’ambito dell’opinione pubblica cattolica (e non solo) come un nodo critico non facilmente scioglibile. Frequenti sono stati in questi ultimi anni gli interventi: dal sinodo amazzonico a quello tedesco, fino al recente simposio vaticano sul sacerdozio. Le posizioni presenti nell’ambito della gerarchia della Chiesa risultano al riguardo – come si può constatare dai documenti redatti in tali circostanze – assai variegate.
A sollecitare un cambio dell’attuale disciplina vi è senz’altro la scarsità di clero a disposizione delle chiese locali. In passato la richiesta di questo cambio veniva soprattutto dagli episcopati del Terzo mondo, dove più consistente era tale scarsità; oggi essa viene anche dagli episcopati occidentali a causa della drastica riduzione, negli ultimi decenni, delle vocazioni sacerdotali.
Al di là di questa motivazione, peraltro discutibile – non potrebbe essere questa l’occasione per restituire ai laici le funzioni che loro competono dilatando gli spazi della partecipazione ecclesiale? – ne emergono, anche a livello gerarchico, altre più nobili, in primo luogo quella relativa alla libertà di scelta, non sussistendo un legame indissolubile tra ministero ordinato e matrimonio – come è peraltro dimostrato dalla presenza nella Chiesa cattolica di una diversa disciplina: quella delle Chiese cristiane orientali, la quale consente la scelta del matrimonio anche per chi accede al ministero.
Una riflessione attorno al tema si era aperta già durante la celebrazione del Vaticano II (1962-1965), ma il dibattito (acceso) che iniziava a svilupparsi si è interrotto a seguito dell’intervento di papa Paolo VI che avocava a sé la questione, promettendo di intervenire come peraltro è avvenuto con la pubblicazione della Sacerdotalis coelibatus, la quale non fa che confermare la dottrina tradizionale della Chiesa cattolica latina. La ragione principale che qui si adduce è di carattere pastorale e consiste nell’affermazione della maggiore libertà interiore e del maggior spazio di tempo da dedicare al servizio ecclesiale da parte di chi è libero da legami matrimoniali e familiari. La motivazione è assai discutibile. È senz’altro migliore la situazione di chi esercita il ministero sacerdotale in una condizione di stabilità affettiva come quella matrimoniale rispetto alla situazione di chi ha scelto il ministero, perché sente di poter offrire questo servizio alla comunità cristiana, e si trova costretto per accedervi a dare il proprio consenso al celibato, vivendo spesso con frustrazione tale condizione con evidenti ricadute negative anche sull’esercizio del ministero stesso.
Se poi si ripercorrono le tappe attraverso le quali si è pervenuti alla disciplina canonica tuttora vigente, che è stata autorevolmente sancita dal Tridentino (1545-1563), ci si rende conto che la motivazione pastorale fa spesso da copertura ad altre motivazioni non esplicitate, ma che godono nei fatti di una consistente rilevanza.
La motivazione pastorale dell'obbligo al celibato fa spesso da copertura ad altre motivazioni non esplicitate, ma che godono nei fatti di una consistente rilevanza: la prima (e forse la più importante) è legata alla visione negativa della sessualità
La prima (e forse la più importante) è legata alla visione negativa della sessualità, che è venuta affermandosi nel periodo della patristica – è sintomatico che la comunità apostolica non si ponga il problema – a causa dell’influenza di correnti neoplatoniche e gnostiche, che hanno assunto un ruolo di grande rilievo nella elaborazione del costume ecclesiale, e in particolare nella formazione dei futuri preti, incentrata sulla rimozione del sesso e sulla messa in guardia dal pericolo rappresentato dal rapporto con la figura femminile.
La seconda motivazione è di natura strettamente economica, e consiste nella volontà di conservare intatto il patrimonio dei beni ecclesiastici, preservandolo dal rischio della trasmissione ai figli o ai nipoti qualora il prete avesse una sua famiglia. Questa preoccupazione ha esercitato (e tuttora in parte esercita) un ruolo importante nella vita della Chiesa, che fatica ancora oggi a fare propria la povertà, sia di beni economici che di potere – le due cose sono tra loro strettamente connesse e interdipendenti – come stile di vita.
Questo intreccio di motivazioni sussiste tuttora in radice, pur avendo assunto contorni diversi rispetto al passato. Il Vaticano II ha segnato in proposito una certa svolta (non del tutto compiuta) sia a riguardo del giudizio sulla sessualità – emerge dai documenti conciliari, in particolare dalla Gaudium et spes, una visione più positiva del sesso – sia nei confronti della questione economica con l’esigenza di un ritorno (in realtà non del tutto attuato) alla povertà evangelica. La motivazione che acquisisce il primo posto è dunque oggi, come si è accennato, quella pastorale, la quale peraltro si scontra con un’istanza pastorale non meno rilevante, cioè il dovere dei vescovi di fornire alla comunità un numero sufficiente di ministri per lo sviluppo della vita comunitaria, che ha nella celebrazione eucaristica il momento culminante.
Di qui la richiesta di una revisione della disciplina ecclesiastica sull’obbligatorietà del celibato, la quale è ritenuta peraltro da molti fedeli come una disciplina anacronistica, che imponendo per legge una scelta alla quale corrisponde una particolare vocazione e che dovrebbe essere per questo del tutto libera finisce per creare, da un lato, situazioni di disagio esistenziale, derivanti dalla ricerca di compensazioni affettive logoranti e per sminuire, dall’altro, lo stesso valore della verginità – in realtà a essere in gioco è il celibato (e tuttavia nella mentalità comune dei fedeli le due cose coincidono) – grazie a una perdita di credibilità dovuta alla contro-testimonianza di coloro che dovrebbero viverla.
L'obbligatorietà del celibato è ritenuta da molti fedeli arcaica e anacronistica, poiché imponendo per legge una scelta che dovrebbe essere del tutto libera finisce per creare situazioni di disagio esistenziale
La proposta che viene da più parti sollevata è allora quella di accedere a una duplice tipologia di ministero: quello celibatario e quello uxorato. Non si deve certo bandire il ministero celibatario, laddove è espressione di una libera scelta frutto di una autentica vocazione alla verginità. Vi sono buone ragioni per affermare che il celibato, vissuto nella gioia di una libera scelta, costituisca, oltre che un segno della dimensione escatologica del mistero cristiano, uno status che offre una particolare disponibilità interiore a vivere il ministero ordinato. Ma questo non esclude la plausibilità della presenza di un sacerdozio uxorato, che ha, a sua volta, notevoli chances anche dal punto di vista pastorale: si pensi soltanto a quanto è importante l’esperienza familiare per affrontare, in modo efficace, questioni di vita quotidiana che coinvolgono la maggior parte dei fedeli.
La questione è allora: come concepire il rapporto tra le due tipologie di ministero? In altre parole, come delineare una prassi pastorale che assuma l’apporto differenziato di esse, rendendo in questo modo trasparenti le due dimensioni costitutive del mistero cristiano, l’istanza incarnatoria e la tensione escatologica? Si tratta – è questa la proposta che mi permetto di avanzare – di dare vita alla presenza all’interno della Chiesa di due ruoli diversi di esercizio del ministero ordinato. La prima (e la più diffusa) – quella del ministero uxorato – dovrebbe proporsi come una forma di servizio residenziale offerto ai fedeli che vivono sul territorio da parte di persone che vengono riconosciute come leader spirituali capaci di far crescere la comunione (non era forse questa la funzione dei presbiteri nella primitiva comunità cristiana?).
La seconda modalità – quella celibataria – dovrebbe invece svolgere una funzione più missionaria, nel senso di dedita allo sviluppo di forme di presenza in ambiti nei quali è sempre più urgente un’opera di evangelizzazione o rivolta alla cura di aree specifiche nelle quali si svolge la vita familiare, professionale e lavorativa in genere; aree che richiedono un intervento più mirato e specialistico.
L’abbandono dell’attuale disciplina celibataria, lungi dal dover essere pertanto considerato come un cedimento allo «spirito del tempo», diventerebbe l’occasione per un vero e proprio arricchimento dell’azione pastorale della Chiesa. La possibilità di accesso al sacerdozio in ambedue le condizioni di vita, oltre a costituire un atto di rispetto della libertà personale e a dare luogo a scelte umanamente più solide perché più serene, favorirebbe la realizzazione di una complementarità nell’esercizio del ministero sacerdotale oggi necessaria per interpretare correttamente la complessità delle situazioni e rispondere con efficacia alle richieste di una condizione di secolarizzazione, che rende sempre meno percepibile la domanda di fede.
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