Non è facile parlare in maniera accessibile di questioni complesse e delicate come la vicenda cui è dedicato il nuovo volume della collana Pagine di Russia dell’editore Stilo, Il caso Sandormoch. La Russia e la persecuzione della memoria di Irina Flige, nella traduzione di Giulia De Florio. Non è facile in Russia, dove i fatti sono tragicamente avvenuti e non lo è ancora di più in Italia, dove la faccia più terribile del regime putiniano pare essere divenuta universalmente nota soltanto negli ultimi dieci mesi. Si tratta di pagine di storia e contemporaneità russe ignorate dai più e che aiutano a comprendere da vicino quello che sta accadendo anche oggi. In realtà, il caso Sandormoch ha a che fare in primo luogo con un regime più storico, quello staliniano; eppure, la contemporaneità socio-politica russa ne ha fatto una vicenda estremamente attuale.
Il caso Sandormoch è complesso, in prima battuta, perché richiede una necessaria premessa di carattere storico che vada a contestualizzare tanto l’evento (risalente al 1937-1938), quanto la riscoperta dello stesso ad opera di studiosi e personalità legate all’organizzazione Memorial (liquidata nel 2021 dalle autorità russe e co-assegnataria del premio Nobel per la Pace nel 2022), la quale a sua volta va quanto meno introdotta al lettore meno avvezzo alle vicende russe. Risponde a queste necessità l’introduzione al libro del curatore Andrea Gullotta, presidente di Memorial Italia, che in queste pagine ripercorre la storia dell’organizzazione (nata nel 1989 dalla volontà di una serie di dissidenti, tra cui il fisico Andrej Sacharov) e il significato che il caso Sandormoch ha rappresentato per essa. Il libro, “quintessenza di Memorial” (p. 19), scritto sotto una forma inaspettatamente quasi teatrale (con tanto di colpi di scena, “personaggi” che ritornano e un finale cechovianamente aperto), descrive infatti il lavoro che i memorial’cy (gli studiosi, ricercatori, attivisti dell’organizzazione) hanno compiuto a partire dai primi anni Novanta per trovare risposta a un interrogativo posto dal direttore di Memorial San Pietroburgo, Veniamin Viktorovič Iofe, alla luce del confronto tra una serie di documenti legati a un luogo e un periodo precisi: “E se le date di esecuzione ravvicinate nascondessero in realtà una fucilazione di massa compiuta nell’autunno del 1937?” (p. 60).
Il libro descrive il lavoro che i memorial’cy hanno compiuto per trovare risposta a un interrogativo: “E se le date di esecuzione ravvicinate nascondessero in realtà una fucilazione di massa compiuta nell’autunno del 1937?”
Così iniziarono le ricerche, culminate nell’estate del 1997 con i primi rinvenimenti per i quali si deve ringraziare lo storico Jurij Dmitriev, oggi ostaggio del sistema putiniano secondo un vero e proprio “regolamento dei conti” tra le autorità e l’organizzazione Memorial, presa a rappresentante della società civile più scomoda (p. 186). Ci troviamo in Carelia in una radura nei pressi di Sandormoch, un luogo legato all’universo dei GuLag delle isole Solovki.
“Il 17 luglio [del 1997], in base al decreto dell’aiuto procuratore, nel reparto di criminologia clinica dell’Ufficio per le perizie medico-legali del ministero della Salute della Repubblica della Carelia venne eseguita la perizia dei resti di ossa delle tombe nn. 1, 39, 40 (i numeri seguivano l’ordine dei paletti messi nel terreno per segnalare le fosse). Il 25 luglio arrivò il risultato: ‘Le sepolture risalgono a più di 50 anni fa…’, ‘Su tutti i teschi si trovano ferite da arma da fuoco. I fori d’ingresso sono collocati sull’osso occipitale, quelli di uscita sull’osso frontale’” (p. 111-112).
Ai ritrovamenti e allo studio dei resti è seguita la monumentalizzazione del sito, reso memoriale delle vittime e inaugurato il 27 ottobre 1997 (la data scelta è quella della prima esecuzione del 1937). All’interno del memoriale si trovano 25 monumenti etnoreligiosi e collettivi, a dimostrazione della diversità di origine delle vittime di queste esecuzioni di massa (musulmani, ebrei, ucraini, estoni, lituani, polacchi, careliani, vainachi, finlandesi, moldavi, tatari, georgiani, popolazione mari, azeri). Per ultimo è arrivato, nel 2016, il cosiddetto “monumento ai russi” che l’autrice commenta così:
“l monumento ai russi non è affatto un monumento, ma la replica in una disputa. Non è un monumento per i propri cari torturati e giustiziati, ma contro una ‘memoria estranea’. […] Il senso di quella replica è molto semplice: voi mettete i monumenti per la vostra gente (ed è vero!), quindi la considerate, quella gente, vittima (e anche questo è vero!). Ma di chi? A chi fate causa se tutti voi, lituani, ebrei, careli, polacchi, georgiani ecc. siete vittime e basta? È chiaro: fate causa a noi, ai russi. E allora sapete cosa? Noi, i russi, siamo più vittime di tutti voi, e non riuscirete a strapparci questo titolo!” (p. 178).
Si tratta certamente di una questione di memoria, ma anche di vittime (riconosciute e commemorate) senza un meglio identificato carnefice ed è questa “la caratteristica principale del Terrore nella coscienza di massa contemporanea”
La vicenda specifica attorno al “monumento ai russi” è in realtà sintomo di un fenomeno più ampio, al centro, in fin dei conti, di tutto il caso Sandormoch che Irina Flige raccoglie in questo libro. Si tratta certamente di una questione di memoria, ma anche di vittime (riconosciute e commemorate) senza un meglio identificato carnefice ed è questa “la caratteristica principale del Terrore nella coscienza di massa contemporanea: c’è una tragedia, ci sono le vittime innocenti di questa tragedia, ma non c’è il crimine. E nemmeno chi lo ha commesso” (p. 159). E qui veniamo alla sfida che Memorial come organizzazione dedita alla riscoperta e preservazione della memoria pone a un sistema statale come quello russo. Così riassume, meglio di come potrei fare io, Andrea Gullotta (pp. 17-18):
“Indagare sul passato sovietico significava scoperchiare un vaso di Pandora: poteva portare i cittadini a scoprire di avere in famiglia non solo vittime, ma carnefici, complici, delatori. […] Su questo terreno poco propizio si andava poi a installare la coscienza, sempre maggiore, da parte dello Stato riguardo alla natura eversiva della memoria. Ricordare le repressioni significava mettere sotto accusa uno Stato di cui la Federazione russa era erede diretto, oltre a essere governato prima da un ex funzionario sovietico e poi da un ex agente del Kgb. Soprattutto, le repressioni smascheravano un fondamento del rapporto tra Stato e cittadino in Urss: ovvero che il cittadino fosse, per lo stato, uno strumento di cui disporre a proprio piacimento per i suoi fini, decretandone anche l’arresto o la morte (fisica e poi memoriale a causa della damnatio memoriae riservata alle vittime), e ignorandone del tutto le esigenze affettive, private e professionali. Di tutte le associazioni che si occupavano di memoria, Memorial era anche quella più pericolosa perché proponeva un approccio dal basso, democratico e totalmente aperto alla memoria, alla conoscenza, alla ricerca. Infine, la memoria delle repressioni si andava a scontrare con quella narrazione epica delle gesta della grande madre Russia che diventa fondamentale per il potere putiniano dalla metà dei 2010 in poi e che trova nei momenti vittoriosi – soprattutto la Seconda guerra mondiale, o Grande guerra patriottica, come viene chiamata in Russia – la propria sublimazione e nelle catastrofi storiche come il gulag piccoli incidenti di percorso, da riconoscere ma non enfatizzare”.
La traduzione di questo importante “monumento” della storia e del presente russi costituisce un’operazione di estremo pregio alla luce della situazione attuale. Il caso Sandormoch. La Russia e la persecuzione della memoria di Irina Flige è stato pubblicato in una tiratura molto limitata in occasione del festival Pagine di Russia, tenutosi lo scorso novembre a Bari. È aperto ora un crowdfunding, attivo ancora per pochi giorni, sulla piattaforma Produzionidalbasso per permettere al libro di ottenere la tiratura che sicuramente si merita. Contribuendo al crowdfunding, pre-acquisterete la vostra copia cui è allegata un’illustrazione dell’artista russa Lilya Matveeva, autrice anche dell’immagine in copertina del libro.
Riproduzione riservata