Un uomo con lo sguardo fiero cammina a passo lento ma deciso nel cortile di un carcere. I detenuti intorno lo guardano con riverenza, aspettando in silenzio le sue mosse. L’uomo cammina avanti e indietro guardando l’orologio e attendendo il suo avversario che non arriva all’appuntamento. Poi si ferma e grida risoluto: «O’ Malacarne è un guappo di cartone!». Con quella frase, urlata a più riprese, il protagonista della scena sigla l’inizio della sua ascesa criminale e la scena stessa, accompagnata da un’inconfondibile colonna sonora firmata da Nicola Piovani, diventa una delle più celebri sequenze di cinema sedimentate nell’immaginario collettivo. Il protagonista della scena è il Professore di Vesuviano, alias Raffaele Cutolo, interpretato dall’attore Ben Gazzara (che a Cutolo assomiglia incredibilmente), e il film in questione è Il camorrista, opera prima del regista premio Oscar Giuseppe Tornatore.
È il 1986 quando la pellicola esce nelle sale. A ispirare Tornatore è il best seller, pubblicato due anni prima, Il camorrista. Vita segreta di Raffaele Cutolo, del giornalista Giuseppe Marrazzo (Pironti editore, 1984). Quest’ultimo, di origini salernitane, conosce bene la camorra, essendosene occupato a lungo. Cutolo, poi, lo ha intervistato in diverse occasioni. Il libro è una storia romanzata della vita del boss di Ottaviano, narrata in prima persona. Quando arriva nelle librerie, il fondatore della Nuova camorra organizzata è già un personaggio di rilievo mediatico e il romanzo sulla sua vita spopola. Poi il film fa il resto.
Con la recente morte di Raffaele Cutolo si è tornati a riflettere sulla pellicola del 1986 e allora come oggi la domanda che divide il pubblico è sempre la stessa: quanto incide il cinema nei processi di mitizzazione dei personaggi criminali?
È una domanda dalla risposta non facile, ma un fatto è certo: per la maggior parte di noi l’idea che abbiamo delle mafie e molto di quello che sappiamo su di esse provengono dai mass media, non certamente dall’esperienza diretta. Giornali, libri, informazione, programmi televisivi, film e serie tv veicolano i contenuti che strutturano la nostra conoscenza del fenomeno. Gli audiovisivi, in particolare, svolgono un ruolo cardine nella definizione degli immaginari sulle mafie, intesi come quei contenitori di simboli, riti, miti e archetipi che riconosciamo immediatamente e associamo all’universo mafioso. Gli immaginari delle mafie sono potenti e vivono in un rapporto di mutuo scambio con la realtà: da essa in parte derivano, ma a loro volta la influenzano. Non ne è forse una prova il ritrovamento nei covi di diversi mafiosi di libri e film di successo sulla malavita organizzata? I media, in altre parole, costruiscono mitologie e rappresentazioni della mafia di cui la mafia stessa si appropria e si nutre, assumendole come modelli.
La mitizzazione dei fenomeni criminali prodotta dall’industria culturale è probabilmente un processo indipendente e inevitabile, una sorta di rischio sempre in agguato, che si verifica anche quando non vi è alcuna volontà di trasmettere un’immagine positiva delle mafie. Così fu per il film di Tornatore. La pellicola è una cronaca quasi a caldo della vita di Cutolo, che solo pochi anni prima, nel 1982, aveva conosciuto l’inizio della fine della sua potenza criminale con il trasferimento nel penitenziario dell’Asinara, dove per la prima volta sarebbe stato sottoposto al carcere duro. Il suo astro è in discesa, ma il film – che narra le vicende delinquenziali della sua vita proprio fino al momento in cui è trasferito all’Asinara – contribuisce a tenerne viva la fama. Nel film l’esigenza di raccontare realisticamente fatti ispirati alla realtà si fonde con quella di intercettare il grande pubblico attraverso un linguaggio spettacolare.
Il camorrista, così, coniuga il cinema di impegno civile, cioè il racconto-denuncia della realtà, con quello di genere, per di più scegliendo il suadente punto di vista del protagonista criminale. Ma, come detto, non è il film di Tornatore a dare la fama a Cutolo. Piuttosto a quella fama Il camorrista fornisce maggiore smalto. Il boss di Ottaviano, infatti, già prima del film era riuscito a sfruttare la potenza dei media per costruire il proprio personaggio. I giornali parlavano di lui a caratteri cubitali, autorevoli giornalisti televisivi correvano a intervistarlo, le aule dei tribunali si trasformavano in palcoscenici durante le sue udienze. Cutolo, in altre parole, prima de Il camorrista era già un personaggio «crossmediale» (lo spiega bene Marcello Ravveduto nel suo libro Lo spettacolo della mafia. Storia di un immaginario tra realtà e finzione, Edizioni Gruppo Abele, 2019), abilissimo a servirsi dei media per farsi pubblicità e accrescere la sua fama e il suo potere.
Non è difficile per il boss di Ottaviano imporsi all’attenzione della scena prima criminale e poi mediale. Nella realtà, come nel film, o’ Professore è un uomo elegante e carismatico, dall’eloquio persuasivo e dai modi distinti. Insomma, una figura lontanissima dalle fattezze del delinquente rozzo e sanguinario. Si presenta come una specie di Robin Hood che in un mondo ingiusto porta a suo modo giustizia, come un benefattore che si sostituisce a uno Stato assente nelle pieghe di una società martoriata dalla disoccupazione e dal disagio. In queste vesti il boss vesuviano costruisce la propria autorevolezza, che si traduce in potere galvanizzante verso i suoi affiliati e il mondo circostante.
Il film di Tornatore all’uscita fece discutere e qualche settimana dopo essere arrivato in sala fu ritirato a causa di una querela di Cutolo a Giuseppe Marrazzo, in riferimento a una specifica parte del libro riportata anche nella trasposizione cinematografica. Fu necessario, per consentire alla pellicola di essere nuovamente distribuita, farla precedere da una didascalia iniziale in cui si chiariva che i fatti narrati fossero un’«elaborazione fantastica di quelli avvenuti». Del resto, la precisazione pareva utile a fronte delle polemiche scaturite a partire dalla trattativa nel film tra o’ Professore e i servizi segreti per la liberazione di un politico preso in ostaggio da terroristi rossi, che rimandava con evidenza alla vicenda controversa del rapimento nel 1981 del democristiano Ciro Cirillo.
Oltre a quella per il cinema, de Il camorrista fu fatta una versione più lunga, destinata al piccolo schermo. Ci aveva visto lungo Morando Morandini quando all’uscita in sala del film scrisse che «non è fatto per piacere allo spettatore piccolo e medio borghese, che probabilmente lo giudica rozzo, inverosimile ed enfatico. Piacerà in alto e in basso, al pubblico della provincia e agli spettatori colti in grado di capire – il primo per istinto, i secondi per conoscenza – quanto sia vicino alla realtà questo melodramma romanzesco. Non è escluso che troverà il suo vero successo quando sarà messo in onda da Canale 5 nell'edizione di cinque ore» («Il Giorno», 1° dicembre 1986).
L’edizione lunga sul piccolo schermo non è mai approdata, in compenso la versione cinematografica sulle reti televisive private campane vi è rimasta a lungo, più di quanto si potesse immaginare. Trasmessa per anni quasi a ripetizione, vista e rivista dai pubblici della provincia, la pellicola è diventata una specie di cult, capace di alimentare con forza quell’immaginario camorristico contemporaneo da cui discende il più attuale universo di Gomorra. La visibilità de Il camorrista rimarca la capacità del grande schermo di essere modificatore di mentalità in un momento storico in cui il cinema non è più, come in precedenza, specchio degli immaginari, soppiantato in questo ruolo, a partire dagli anni Ottanta, dalla tv.
Il camorrista non creò il mito di Cutolo, ma ha contribuito – sebbene al di là della volontà dei suoi autori – ad alimentarlo e a proiettarlo per certi pubblici nel lungo periodo, fino a oggi. Non è facile sapere con esattezza che ruolo giocano i media nella costruzione dell’irresistibile fascino del potere mafioso. Quel che è più certo è l’irresistibile potere dei media stessi.
Riproduzione riservata