L’ambigua altalena del sostegno a stelle e strisce. Compare e scompare a intermittenza. La notizia della sospensione dei fondi statunitensi all’Egitto viene annunciata e smentita dai mezzi di informazione di entrambi i Paesi con scadenza quasi costante. A diffondere l’ultimo allarme è stato un editoriale del New York Times, in fretta smentito da comunicati ufficiali che confinano le scelte del presidente Barack Obama a un «taglia e cuci» di quei sussidi che Washington invia al Cairo dal ‘79. Dall’assegno statunitense pari a 1,3 miliardi di dollari annui sarebbero sottratte le somme dedicate a elicotteri, jet e carri armati. A essere toccati sarebbero i fondi di sostegno economico, ma non quelli che ricadono nella voce relativa ai finanziamenti militari esteri, tra i quali quelli destinati a misure di controterrorismo tra Gaza e il Sinai.
Anche se a fine luglio Obama ha sospeso la consegna di quattro caccia F-16 e nel suo ultimo discorso alle Nazioni Unite ha criticato gli scarsi progressi democratici del nuovo governo egiziano, è difficile pensare che la Casa Bianca sia realmente pronta a mollare la sua presa sul Cairo. A mostrarlo anche lo slalom lessicale con il quale l’amministrazione ha evitato di etichettare la deposizione per mano militare del presidente islamista Mohammed Mursi come un colpo di stato, per non innescare la legge statunitense che impone la sospensione degli aiuti in caso di golpe.
A temere gli effetti di un eventuale disimpegno è in primis Israele, ben conscio che l’assistenza garantita all’Egitto sia un tassello indispensabile per l’equilibrio di Camp David e il contenimento delle minacce provenienti dal rovente Sinai. Washington questo lo sa bene. A mostrarlo anche un cable risalente al marzo 2009, rivelato da Wikileaks, dove l’assistenza all’Egitto viene definita un «compenso intoccabile» per il mantenimento dell’equilibrio regionale. Oltre a quelli israeliani, gli Stati Uniti temono poi di mettere a rischio i propri interessi. Qualora fossero bloccati i fondi destinati al Cairo, le navi da guerra americane perderebbero il rapido accesso al canale di Suez e allo spazio aereo egiziano. In questo contesto, l’aiuto militare non è un atto benevolo, ma il pagamento per i servizi resi a tutti i livelli dal governo egiziano. Un taglio dei fondi all’Egitto potrebbe poi avere delle ricadute sull’economia statunitense. Questi sono infatti vincolati all’acquisizione di armi, all’aggiornamento e al mantenimento delle apparecchiature militari già esistenti. Non finiscono direttamente nelle casse egiziane, ma sono depositati in un conto fruttifero presso la Federal Reserve Bank di New York. Anche se la somma stabilita è su base annua, l’esercito egiziano è autorizzato anche negoziare acquisti che richiedono la programmazione di molteplici anni di pagamenti. Qualora la Casa Bianca chiudesse i rubinetti ai militari egiziani, a pagarne le spese sarebbero una quarantina di società statunitensi che incassano gli introiti derivanti dai contratti stipulati con l’Egitto grazie agli assegni americani.
Basta pensare all’azienda Lockheed Martin che nel 2010 ha firmato un contratto di 2,5 miliardi di dollari per consegnare al Cairo venti F-16 da combattimento entro il 2014. Lo stesso vale per General Dynamics e Boeing che sta fornendo al Cairo quegli elicotteri Apache che continuano a sorvolare minacciosi le manifestazioni dei sostenitori di Mursi. A firmare i contratti con le società statunitensi che forniscono apparecchiature e servizi richiesti da parte dell’Egitto è il Pentagono, non il Cairo. È la Casa Bianca la prima responsabile per i fondi eventualmente non pagati qualora i contratti venissero interrotti. Il taglio agli aiuti militari non avrebbe effetti sulla vita dei cittadini che di questi fondi non hanno mai percepito l’effetto. Neanche l’economia egiziana ne sarebbe particolarmente colpita, visto che i soldi — che non sono una voce del bilancio nazionale — non sono mai realmente entrati in Egitto. Nell’immediato poi, un taglio non avrebbe alcun impatto sull’esercito egiziano. I fondi per il 2013 sono già stati trasferiti e le prime conseguenze si inizierebbero ad avvertire a metà 2014. In aggiunta, i militari egiziani controllano circa il 40% del Pil nazionale e hanno una certa disponibilità di liquidità. I generali sono poi tranquillizzati dalle promesse fatte da Kuwait, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, pronti a riempire le casse egiziane con dodici miliardi di dollari. Anche se nel breve periodo la generosità di queste petromonarchie è rassicurante, è prematuro contare su un sostegno costante e duraturo come quello statunitense.
I sauditi, soprattutto dopo il disastroso fallimento di Mursi, sono diventati gli interlocutori arabi privilegiati dalla Casa Bianca e questo avrà delle conseguenze anche nelle relazioni che Obama cerca di intrattenere con quei generali egiziani sempre più offesi dall’ambiguità americana. Questa, messa ora in luce dal dossier dei fondi, ha radici molto più profonde che svelano che quella made in Usa è un’ambiguità strategica presente in Egitto, come nel resto della regione.
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