Palestina a due velocità. Per una sorta di eterna nemesi i palestinesi paiono condannati, dalla cronaca e dalla storia, a fare notizia solo in occasione di qualche recrudescenza di un conflitto tanto antico quanto incancrenito. Eppure i palestinesi esistono non solo come comunità nazionale, con una diaspora che si aggira ormai intorno ai dieci milioni di elementi, tra gli abitanti della Cisgiordania, di Gaza e i residenti nel resto del pianeta. Dal giugno del 2007 la frattura tra i territori governati da ciò che resta dell’Autorità nazionale palestinese, nata con gli accordi di pace siglati tra il 1993 e il 1995, e quello che i detrattori chiamano «Hamastand», ossia la striscia di Gaza, rigidamente controllata dagli uomini del movimento fondamentalista Hamas, parrebbe avere consegnato al destino di una divisione politicamente inconciliabile un popolo che rivendica non solo l’unità ma anche uno Stato sovrano. La guerra infra-palestinese, che ha segnato il destino della popolazione locale in questi ultimi due anni, se a certuni parrebbe destinata a sancire la fine del sogno di una comunità politica unitaria in realtà in queste ultime settimane, al di là delle manifestazioni di violenza che pure non sono mancate, sta conoscendo una evoluzione imprevista. Il quadro, infatti, dopo le tensioni dei mesi trascorsi, tra le quali il presunto complotto volto ad assassinare Abu Mazen, presidente dell’Autorità palestinese, pare adesso essersi messo in moto. Con tutta probabilità a ciò ha contribuito il discorso di Barack Obama all’università cairota di Al Azhar del 4 giugno, quando ha inequivocabilmente richiamato l’ineluttabilità storica di uno Stato palestinese. Alle orecchie delle stanche leadership locali ciò è suonato come un campanello d’allarme, una sorta di squillo di tromba, laddove il Presidente statunitense ha detto che gli accordi di pace si faranno solo con chi vorrà partecipare alla loro costruzione. In questi giorni, quindi, anche con la silenziosa e appartata mediazione degli americani stessi, a partire dall’inviato speciale della Casa Bianca George Mitchell, Hamas e l’Autorità palestinese si sono più volte incontrate in Egitto. Dopo sei cicli di spossanti colloqui, con all’ordine del giorno il negoziato sulla fine delle ostilità, gli sherpa dei due gruppi si sono riconvocati per fine luglio, quando al Cairo dovranno definire una volta per sempre la spinosa questione dei prigionieri politici, che entrambe le parti trattengono come ostaggi. Se Hamas sconta l’isolamento politico internazionale che ne ha condizionato le ultime scelte operative, obbligandosi ad un colpo di stato prima e poi ad uno scontro dissanguante con le forze armate israeliane nel corso dei mesi appena passati, al Fatah, la componente maggioritaria dell’Autorità palestinese, deve fare i conti con il declino morale delle sue élite, insieme allo perdita di credibilità politica che dal 2000, anno della seconda intifada, fallita nei suoi obiettivi, ne ha segnato l’involuzione. Insomma, i due gruppi più importanti della galassia palestinese sono in difficoltà e devono uscire dallo stallo in cui si trovano. La situazione sul terreno si presta peraltro a letture differenziate. La condizione della Cisgiordania, malgrado la permanenza di almeno 650 tra ostacoli mobili e fissi (checkpoint, barriere, strade precluse alla circolazione della popolazione civile locale), imposti dagli israeliani, insieme allo sviluppo delle colonie ebraiche (più di 300.000 residenti), ha conosciuto comunque un qualche miglioramento grazie all’azione del governo del Premier Salam Fayyad, impegnatosi nella lotta contro il male nazionale: la diffusa e perdurante corruzione. L’Autorità palestinese, in virtù degli accordi firmati con Israele, controlla attivamente solo il 17% del territorio complessivo, per una popolazione che al 2007 era costituita da 2.345.000 persone, presenti in un’area di circa 5.640 chilometri quadrati (includendovi anche i territori di Gerusalemme est). Si tratta di una realtà a macchia di leopardo, insomma, alla quale Fayyad ha risposto cercando di innovare la prassi di governo e la macchina amministrativa. Alcuni risultati sono stati conseguiti e la credibilità di un esecutivo palestinese fatto anche di dicasteri «tecnici» è aumentata in questi ultimi mesi. La situazione di Gaza, invece, è secondo l’Onu disastrosa. A sei mesi dalla conclusione dell’operazione militare israeliana almeno 26.000 persone sono ancora senza un tetto, rispetto ad una popolazione di 1.481.000 elementi, residente in 360 chilometri quadrati complessivi. Il sessanta per cento degli abitanti della Striscia è peraltro privo di lavoro. Durante l’operazione «Piombo fuso» sono stati distrutti non meno di 4.000 edifici, insieme a 240 fabbriche. Le case danneggiate ammontano a 15.000. Attualmente le fonti di reddito più cospicue sono le stesse strutture delle Nazioni Unite, che pagano 16.000 stipendi, oltre a Hamas che sostiene il reddito di 13.000 famiglie. Il resto è un arrabattarsi tra commerci clandestini, peraltro molto lucrosi per una piccola élite di trafficanti, qualche raro permesso di lavoro in Israele e la mendicità di fatto. Cosa ne verrà fuori da una «Palestina a due velocità» è difficile dirlo ma è certo che i protagonisti sanno che la divisione ha un costo che non è detto che la popolazione sia disposta a pagare ancora a lungo.
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