Il ponderoso lavoro di Thomas Piketty (Capitale e ideologia, trad. it. La nave di Teseo, 2020) merita di essere preso in attenta considerazione sia per la ricchezza dei materiali storici presentati, sia per le tesi che vengono sostenute. Un volume di quasi 1.200 pagine può scoraggiare anche il lettore più attento, ma la prosa limpida e accattivante, unita alla indubbia attualità delle diverse questioni affrontate, rappresentano un buon incentivo alla lettura.
Rispetto al libro precedente, di grande successo e tradotto in 40 lingue (Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, 2014), che si concentrava prevalentemente sulle disuguaglianze in Occidente a partire dal 1700, questo lavoro amplia la prospettiva spaziale e temporale gettando lo sguardo anche sull’Oriente e su periodi storici precedenti. Non solo. Ne Il capitale nel XXI secolo l’aumento del valore dei patrimoni nelle mani dei ricchi (salvo la battuta d’arresto nel cinquantennio 1920-1970, dovuta alle due Guerre mondiali e allo sviluppo dello Stato sociale) viene imputato alle logiche economiche intrinseche allo sviluppo capitalistico (tesi criticata da molti economisti tra cui D. Acemoglu e J.A.Robinson, The Rise and Decline of General Laws of Capitalism, «Journal of Economic Perspectives», n.1/2015) potenziate dalla pluralità di fattori politici, normativi e istituzionali che favoriscono i gruppi sociali più influenti. In Capitale e ideologia, invece, la prospettiva interpretativa adottata appare più incentrata sulle costruzioni intellettuali volte a giustificare storicamente i sistemi di disuguaglianze esistenti nella distribuzione dei redditi e dei patrimoni dei cittadini di un ampio ventaglio di Paesi.
Piketty individua quattro regimi fondamentali di disuguaglianze, volendo intendere per regime, in senso lato, il complesso di istituzioni volte a determinare la produzione e la distribuzione della ricchezza di una data società
Piketty individua quattro regimi fondamentali di disuguaglianze, volendo intendere per regime, in senso lato, il complesso di istituzioni volte a determinare la produzione e la distribuzione della ricchezza di una data società. Ogni regime produce una sua ideologia, vale a dire un insieme di credenze, teorie e argomentazioni tese a giustificare i sistemi di disuguaglianze esistenti. Il primo di questi regimi è quello costituito dalle società ternarie divise in tre classi funzionali (clero, nobiltà e il resto della popolazione), nelle quali, secondo l’ideologia dominante, ogni classe svolge specifiche funzioni indispensabili per le altre (religiosa, militare, produttiva), in una sorta di complementarietà funzionale simile a quella svolta dalle diverse parti di uno stesso corpo. Il secondo regime, che si afferma con la Rivoluzione francese del 1789, è rappresentato dalle società dei proprietari in cui conta non ciò che si è, ma ciò che si possiede legalmente. La difesa del diritto alla proprietà privata si associa a un’ideologia dominante di tipo meritocratico. Colonialismo e schiavismo ne sono una declinazione estrema. Il terzo regime è costituito dalle società socialdemocratiche (a cui si possono aggiungere quelle comuniste) emerse nel XX secolo che, sfidando le società dei proprietari, hanno conferito un significativo potere ai lavoratori e ai loro sindacati sviluppando efficaci politiche redistributive e forti sistemi di Welfare. L’ideologia che le permea è quella delle pari opportunità, non necessariamente garantite dall’ideologia meritocratica.
Infine, a partire dalle liberalizzazioni degli anni Ottanta del secolo scorso si afferma il regime di ipercapitalismo, che rivitalizza la società dei proprietari su scala globale e produce una crescita delle disuguaglianze economiche.
Cercherò di focalizzarmi su due concetti chiave che guidano il lavoro dell’autore: quello di giustizia e, soprattutto, quello di ideologia. È sulla base di tali concetti, infatti, che Piketty giunge a delineare un’idea di società redistributiva, definita «socialismo partecipativo».
Riferendosi esplicitamente ai lavori di John Rawls, Piketty (Capitale e ideologia, p. 1094) rileva che una società giusta è una società nella quale le disuguaglianze sono accettabili nel grado in cui consentono di migliorare il benessere delle classi meno abbienti. Proprio basandosi su questa definizione, egli sottolinea come, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, la crescita delle disuguaglianze nei principali Paesi analizzati (e, in particolare, negli Stati Uniti, in Europa e in Cina) non si sia accompagnata a un sensibile miglioramento delle condizioni di vita degli strati più poveri della popolazione, producendo, così, un allontanamento dalla realizzazione di una società giusta. Questa constatazione si coniuga con una concezione dell’ideologia caratterizzata, come abbiamo già sottolineato, da un insieme di argomentazioni, più o meno coerenti, atte a giustificare le disuguaglianze esistenti in ogni specifico regime (ibidem, p. 16). L’ideologia è intesa in senso neutrale e, per giunta, priva di significative componenti emotive. Contro ogni determinismo, Piketty enfatizza, inoltre, l’autonomia delle ideologie dalle forme di produzione e il loro reciproco condizionamento. A volte, anzi, il nostro autore è portato ad attribuire alla lotta delle ideologie un ruolo preponderante nei processi di trasformazione sociale (ibidem, p. 1169).
A una concezione forte di ideologia si unisce quella rawlsiana di società giusta, per giungere infine a un'audace proposta di "socialismo partecipativo" in un’ottica transnazionale e mondiale
Una simile concezione forte di ideologia, unita a quella rawlsiana di società giusta, fornisce la spinta per un’audace proposta di «socialismo partecipativo» in un’ottica transnazionale e mondiale. A questo punto, proprio utilizzando la terminologia dello stesso Piketty, potremmo definire la proposta di socialismo partecipativo da lui delineata come un’ideologia fortemente critica dei limiti della meritocrazia «sacralizzata» dall’attuale regime di ipercapitalismo (su tali limiti, si veda anche l’interessante lavoro di M.J. Sandel, La tirannia del merito, Feltrinelli, 2021), un’ideologia, dunque, tesa a ridurre efficacemente le disuguaglianze favorendo la reale uguaglianza delle opportunità.
Essa si articola essenzialmente in tre punti: 1) condivisione del potere, entro le imprese, tra proprietà, management e lavoratori dipendenti, come nella cogestione tedesca e scandinava; 2) imposte fortemente progressive sui redditi, sui patrimoni e sulle successioni; 3) dotazione minima di capitale per ogni cittadino.
Senza entrare nel contenuto dei singoli punti, che pur meriterebbero di essere discussi, è indubbio che ci troviamo di fronte a una prospettiva molto ambiziosa e, proprio per questa ragione, bisognosa di essere accompagnata da indicazioni su come poterla realizzare. Piketty non si sofferma, però, a discutere gli ostacoli che riforme del genere dovrebbero affrontare, quali forze potrebbero sostenerle e quali componenti emotive mobilitanti dovrebbero caratterizzarle. Il suo lavoro si arresta sul terreno della battaglia delle idee. Credo proprio che ciò dipenda dal forte peso attribuito all’ideologia nelle trasformazioni sociali, che induce il nostro autore a trascurare, o a lasciare troppo sullo sfondo, i problemi organizzativi e i conflitti di potere legati inevitabilmente a trasformazioni così radicali. Il potere intra e interstatale è un elemento spesso evocato da Piketty, ma mai realmente messo in opera nella sua proposta di socialismo partecipativo. Va tenuto conto, inoltre, che le riforme da lui auspicate implicano, inevitabilmente, una forte presenza dello Stato. Ciò avrebbe richiesto una riflessione ben più approfondita di quanto è dato trovare nel testo sui limiti dell’intervento statale, soprattutto se collocato nel contesto transnazionale e globale auspicato dal nostro autore.
Se non si elaborano queste problematiche è facile scivolare dal territorio dell’ideologia a quello dell’utopia. Non è detto però che Piketty, grazie alla sua enorme capacità produttiva, non stia già pensando a un nuovo volume per entrare nel dettaglio e per sfuggire a questo rischio.
Ciò detto, resta la sensazione che in Capitalismo e ideologia sia decisamente più convincente la pars destruens delle ideologie che hanno sostenuto i regimi di disuguaglianze passati e presenti, rispetto alla pars construens volta a delineare l’assetto di una nuova società governata dal socialismo partecipativo.
Riproduzione riservata