È vero, tedeschi, olandesi, austriaci e altri consoci non si sono mostrati granché amichevoli nei nostri confronti. Ma, prima di risvegliare i consueti pregiudizi antigermanici e d’intonare geremiadi sulla fine dell’Europa, è il caso di ragionarci. Converrà rammentare per prima cosa che molti Länder tedeschi stanno accogliendo, o sono pronti ad accogliere, un discreto numero di malati provenienti dall’Italia. Visto il collasso di molte nostre strutture sanitarie, è un soccorso non meno prezioso di quello prestato da altri, ultima l’Albania, il cui aiuto ci ha comprensibilmente colpiti.
Di primo acchito, la mancanza di solidarietà di quella che per semplificare chiameremo l’Alleanza del Nord nei confronti dei Paesi più colpiti dal virus, e anche più indebitati, brucia parecchio. Ma le cose vanno sempre osservate da entrambi i lati. Qual è, in altri termini, il punto di vista di chi ci nega l’aiuto finanziario – peraltro imponente – che stiamo chiedendo?
Esclusa l’impossibilità materiale di offrire aiuto, un argomento spicca su ogni altro, e riguarda lo stato dell’Europa così come si è consolidata negli ultimi tre decenni. Contrariamente alle aspirazioni di Altiero Spinelli e di altri padri fondatori, anziché l’«Europa dei popoli» è stata fatta l’«Europa dei mercanti». Per chi è avanti negli anni, come chi scrive, questa differenza un tempo era chiara. Ebbene, l’Europa dei mercanti ha preso il sopravvento molto presto, ma l’illusione dell’Europa dei popoli era rimasta sul tappeto, finché c’è stato il problema di contenere il grande nemico a Oriente. C’è stato, fino ad allora, anche qualche motivo ulteriore di comprensione verso i Paesi appena restituiti alla democrazia – Spagna, Portogallo e Grecia – da cui ha tratto qualche beneficio anche l’Italia. Caduto il Muro di Berlino, l’accelerazione del processo ha però sopraffatto i popoli e ha fatto prevalere i mercanti.
Non è stato il ritorno del nazionalismo più becero, per carità. Ma ciascuno ha pensato per prima cosa ai propri interessi nazionali. La Germania, che aveva il problema di integrare le regioni della ex-Ddr, ne aveva ben donde. In più, la grande crescita postbellica era divenuta un ricordo, le vacche grasse erano finite e, in tempi di vacche magre, era ovvio che ciascuno si difendesse per suo conto, usando i mezzi disponibili: il proprio apparato industriale, le proprie potenzialità finanziarie, le capacità negoziali delle proprie dirigenze politiche. Per alcuni, pure l’Europa è stata un’arma.
Che questo sarebbe stato il suo destino l’aveva annunciato fin dal 1993 l’affossamento del piano Delors, che tentò d’intraprendere una strategia di reazione concertata alle difficoltà economiche di tutti i partners. Da quando quel piano è stato affossato il profilo della futura Unione è stato disegnato dalla priorità assoluta riconosciuta al principio di concorrenza, dal divieto di aiuti alle imprese, dalla libera circolazione di capitali e merci, dalla massiccia immissione di forza lavoro a basso costo dai nuovi Stati membri, dal dumping fiscale attuato da alcuni Stati, in coerenza con le pretese dei mercanti, incuranti del benessere dei popoli, misure tutte più vantaggiose per alcuni Paesi e assai meno per altri.
Qualcuno accampa come ragione per cui l’Alleanza del Nord non voglia aiutarci il timore per le reazioni dei propri elettori. Forse è anche questo. Ma la vera ragione sembra essere un’altra: in regime di concorrenza profittare delle difficoltà altrui è ovvio. All’Europa dopo la caduta del Muro non si è chiesto di essere un meta-Stato, che, come gli Stati democratici del dopoguerra, svolgesse un’azione di regia e di freno nei confronti del mercato, e che potenziasse le tutele degli individui dagli incerti dell’esistenza. L’Europa unita doveva essere invece uno Stato «regolatore» corrispondente al modello di Stato immaginato dal neoliberalismo: garante e tutore della libertà di mercato. Quel tipo di Stato avrebbe dettato regole ed entro quelle regole gli Stati – e le imprese – erano invitati a competere. È un’Europa ben triste quella descritta in questi termini. Ma chi l’ha mai disegnata?
Ha molti padri e le dirigenze politiche, economiche, intellettuali, mediatiche del Bel Paese vi hanno partecipato attivamente. Neanche i più avvertiti e meglio intenzionati sono riusciti ad arrestare la marcia dell’Europa dei mercanti. Un po’ hanno aderito per convinzione: la conversione all’ortodossia neoliberale è stata generalizzata e spesso entusiastica. Un po’ i governi di turno hanno aderito illudendosi che l’Europa fosse un toccasana per antichi e irrisolti problemi. Un po’ si sono accomodati per opportunismo, in cambio di qualche modesta concessione in materia di flessibilità di bilancio. Un caso più di tutti è clamoroso: il famoso regolamento di Dublino II sui richiedenti asilo, entrato in vigore nel 2003 e sottoscritto dal governo Berlusconi, al momento in carica, ben farcito, si sa, di ministri della Lega.
Piaccia o non piaccia, così è. Di cosa del resto ci lamentiamo se oggi i Paesi d’Europa si sentono in competizione tra loro? Sarebbe ora di finirla col vittimismo e pure con le ipocrisie. Il famigerato regionalismo differenziato di cui si è discusso negli ultimi mesi potrebbe esser stato seppellito dal disastro sanitario lombardo di queste settimane. Ma il regionalismo altro non era che il disegno di mettere le regioni italiane più in concorrenza di quanto già non siano dopo la riforma del Titolo V. Che vogliamo? L’Alleanza del Nord sta unitamente trattando gli italiani come le regioni del Nord trattano da tempo le regioni meridionali.
Potremmo forse avercela coi nostri partner europei per essersi ricordati solo nel 2011 che l’Italia berlusconiana faceva finanza allegra, allorquando Trichet e Draghi scrissero la lettera che provocò la caduta del governo Berlusconi. Sopraggiunse il governo Monti, che in ragione del bisogno di rimettere in sesto i conti inflisse agli italiani con ragionieristica determinazione un rito di espiazione, potando sanità, pensioni, amministrazioni locali e via di seguito: fu un bagno di sangue di cui pagarono i costi innanzitutto i ceti deboli e quelli intermedi. E di cui oggi paga i costi il Paese, disarmato di fronte al virus. Da allora sono trascorsi quasi dieci anni, con ben cinque governi e due tornate elettorali. Che cos’hanno fatto questi governi per rimediare ai vecchi danni e a quelli aggiuntivi provocati dalla cura Monti?
Per carità di patria rinunciamo a uno sconsolante inventario di sprechi, impuntature, mosse a effetto, misure inadeguate a ripristinare un’accettabile funzionalità delle pubbliche amministrazioni e dei servizi pubblici e a riparare le gravissime ingiustizie perpetrate a spese dei soliti noti. Non tutti i governi sono stati uguali, non tutti i ministri (anche nel governo Monti) hanno operato allo stesso modo. A entrare nei dettagli è possibile reperire iniziative di pregio. Ciò non toglie che il Coronavirus abbia aggredito un Paese devastato. Il crollo del ponte di Genova è la metafora della sua condizione. E stendiamo un pietoso velo di silenzio sullo stato della vita pubblica. Prima di prendercela con l’Alleanza del Nord non sarà il caso di prendercela con noi stessi e con chi ci ha governato? Stiamo attenti, perché qualcuno tra costoro userà i dinieghi dell’Alleanza del Nord per nascondere le proprie responsabilità.
Il virus è stato l’estremo sugello al disastro. Gli italiani hanno molti difetti, ma non più degli altri. Al momento fanno la loro parte. La sta facendo lo Stato, tanto denigrato e maltrattato. Lo rappresentano il personale sanitario, che paga un pesantissimo tributo alle manchevolezze della sanità; gli insegnanti, che fanno miracoli per seguire a distanza i loro allievi; le forze dell’ordine; chi tiene in piedi il sistema dei trasporti e i servizi pubblici. Fuori dallo Stato vi sono gli operai che ancora vanno in fabbrica, i lavoratori dei supermercati e tanti altri ancora. Fanno dignitosamente la loro parte i cittadini, che a milioni si sottomettono a una condizione di segregazione a dir poco scomoda. È poi il caso di evitare recriminazioni contro chi è fuggito a Sud. Parigi ha perso il 17% della sua popolazione, fuggita nelle seconde case. Gli italiani sono per lo più tornati in famiglia. Occorreva informarli del pericolo e purtroppo qualcosa è scappato di mano a chi ha governato il processo. Chi sta malissimo sono i più deboli, la cui condizione abitativa è inadeguata e cui manca ogni reddito. Non si tratta di assolvere tutti. Ma non criminalizziamo subito chi giorni fa a Palermo ha dato segni di ribellione. Preoccupiamoci semmai di chi, in queste condizioni, potrebbe strumentalizzare episodi come questo.
Giuseppe Conte e il suo esecutivo in questi frangenti hanno fatto la loro parte. Hanno avuto le loro incertezze e fatto i loro sbagli. Ma hanno governato l’emergenza al meglio che potevano: tra i pareri contraddittori degli esperti e sotto gli attacchi sguaiati di un’opposizione ingenerosa e irresponsabile e le imboscate di qualche preteso alleato. Oltre che pressati dagli imprenditori. Di fronte agli atteggiamenti rigoristi dell’Alleanza del Nord, il capo del governo ha tentato di assemblare una coalizione tra Stati dissenzienti, da cui però la Francia si è subito defilata, forse perché ha già ottenuto quel che voleva. Ma purtroppo, se l’Europa è quella dei mercanti, le armi disponibili sono modeste. Con l’impeccabile sobrietà che gli è consueta il capo dello Stato ha voluto rinverdire il ricordo dell’Europa dei popoli. Ha ragione: l’Europa dei mercanti non ha né respiro, né futuro. Resta da vedere se qualcuno vorrà ascoltarlo.
Non è escluso che, dopo qualche schermaglia iniziale, l’atteggiamento degli europei si ammorbidisca. I mercanti mercanteggiano. Ridurre Italia, Spagna, Portogallo allo stremo come si è fatto con la Grecia (allora, rammentiamolo, l’Italia solidarizzò molto poco) non è detto convenga all’Alleanza del Nord. Conte, per parte sua, ha dichiarato che il nostro Paese è pronto a fare con le sue forze. Per evitare ogni equivoco di sovranismo straccione, sarebbe tuttavia opportuno far seguire alle parole qualche fatto. Il virus è egualitario. Ma non sono egualitari gli effetti. Un noto imprenditore mediatico ha raccontato che a lui gli affari vanno benissimo. Forse si tratta di eccezioni. Ma comunque si registrano disuguaglianze gravissime. C’è chi ha chiuso bottega, ma ha un fornito conto in banca, e i tanti che sopravvivevano nell’economia informale, che non hanno di che mettere assieme il pranzo con la cena. Il governo prova a intervenire anche a favore di questi ultimi. I soliti bastian contrari suggeriscono non di dare soldi ai disperati, ma alle imprese. Qualcosa andrà fatto, se non altro a tutela dell’ordine pubblico. Ma sempre debiti sono.
Non sarà allora il caso di chiamare da subito gli italiani, in ragione delle loro possibilità, a una contribuzione straordinaria? La parola tocca agli esperti, ma il ripristino dell’Imu sulla prima casa (con tutte le attenuazioni che sussistevano a suo tempo) non sarebbe una misura accettabile? E un’imposta straordinaria sui grandi patrimoni? Il ripristino della progressività fiscale da troppo tempo calpestata? Lo Stato italiano è povero, ma tanti italiani non se la passano male. Bene, chi sta sopra la media non sarà il caso che dia una mano in così terribili circostanze? Anzitutto sarebbe giusto. Sarebbe pure un segnale di coesione nazionale. Sarebbe infine un messaggio inviato all’Alleanza del Nord. L’Italia non sta provando a scaricare su altri le sue difficoltà. Chiede solo un prestito. Per favore, non a strozzo.
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