L’integrazione europea si muove sempre di più su binari a velocità diversa. Il livello di integrazione politica ed economica varia, infatti, considerevolmente tra gli Stati membri: l'Unione europea è più "alla carta" che mai.
Prendiamo, ad esempio, la zona euro, alla quale aderiscono solo alcuni Stati. Se in teoria tutti gli Stati membri sono tenuti ad aderirvi una volta soddisfatti i criteri di convergenza, in pratica alcuni Stati, come la Danimarca e il Regno Unito prima della Brexit, sono riusciti a negoziare un’esclusione permanente (il cosiddetto opt-out). Lo stesso vale per la Svezia, con il suo opt-out di fatto dall'integrazione monetaria. I trattati, tuttavia, pongono una previsione legale di eventuale adesione alla zona euro per gli Stati di nuova ammissione al progetto europeo. È questo il caso di Bulgaria, Polonia, Repubblica Ceca, Romania e Ungheria, tutti sulla lista del progetto d’allargamento dell’Eurozona. Gli ultimi ad aver adottato la moneta unica sono i croati, che a dieci anni dall’ingresso nell’Ue hanno abbandonato la moneta nazionale il 1° gennaio 2023, primo allargamento dell'Eurozona da otto anni a questa parte.
Un sistema ancora più à la carte è l'area Schengen. Essa si espande ben oltre i confini dell'Ue, comprendendo Islanda, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera, tutti Stati ben sviluppati, al riparo dai flussi migratori e con un potenziale di emigrazione basso. Al contrario, alcuni Stati membri – Regno Unito un tempo e Irlanda tutt’oggi – ne rimangono esclusi su base volontaria. Ci sono poi altri Stati, tutti di più recente adesione all’Ue e tutti collocati nell’Est europeo, la cui esclusione da Schengen non è intenzionale. Bulgaria, Cipro e Romania, ad esempio, non hanno ancora accesso all’Europa senza frontiere, sebbene siano legalmente obbligati ad aderirvi una volta soddisfatti i criteri d’adesione.
L'esclusione temporanea fino al raggiungimento della convergenza rappresenta la principale causa dell'integrazione differenziata nell'Unione europea. Alla luce di eventi recenti, sorge spontanea una domanda: è sufficiente soddisfare determinati criteri tecnici per raggiungere la piena integrazione in un'area? Il caso del rifiuto di Bulgaria e Romania da Schengen, nel dicembre 2022, dimostra che non lo sia. In altre parole, la decisione di realizzare un'integrazione più profonda e completa rimane squisitamente intergovernativa.
Bulgaria, Croazia e Romania hanno infatti soddisfatto i criteri tecnici necessari per entrare nello spazio europeo senza controlli alle frontiere interne. Il 16 novembre 2022, la Commissione europea ha emesso una comunicazione al Parlamento europeo e al Consiglio, raccomandando, senza ulteriori indugi, l'ammissione dei tre Paesi nell'area Schengen. Per quanto riguarda la Romania, la Commissione ha rilevato la "gestione solida e di alta qualità delle frontiere", il ruolo attivo svolto dal Paese nella lotta alla migrazione irregolare e alla tratta di esseri umani, e l’osservanza dei principi di protezione internazionale e "non respingimento". Riconoscimento particolarmente importante alla luce del fatto che il confine romeno con l’Ucraina si estende per ben 649,4 km, distanza seconda solo a quella con la Repubblica Moldova (683,1 km). Dal febbraio 2022, data d'inizio dell’invasione russa in territorio ucraino, fino alla fine di dicembre 2022, la Romania ha gestito 1,7 milioni valichi di frontiera dall'Ucraina, numeri che la posizionano terza dopo Polonia e Ungheria e prima della Slovacchia. Durante questo periodo, la Romania ha lavorato congiuntamente ad altri Stati membri confinanti con l'Ucraina, tutti già aderenti a Schengen, fornendo una gestione efficiente delle frontiere e offrendo protezione temporanea a oltre 102.000 ucraini. Pur non confinando con l'Ucraina, anche la Bulgaria ha concesso un numero piuttosto elevato di permessi di soggiorno per protezione temporanea: 148.000.
Tale impegno sembra però essere passato inosservato. Al Consiglio Giustizia e affari interni (Gai) tenutosi lo scorso dicembre, Austria e Paesi Bassi hanno messo il veto alla richiesta di adesione di Bulgaria e Romania. Da sempre contraria ad allargare i confini Schengen a questi due Paesi, l’Olanda si è opposta fino all’ultimo a un’eventuale adesione bulgara, lamentando il "mancato raggiungimento di risultati soddisfacenti nella lotta alla corruzione e alla criminalità organizzata". Ha invece avuto un ripensamento dell'ultimo minuto nei confronti della Romania dopo la valutazione positiva di una missione conoscitiva di esperti. Essendo però il voto sull’adesione di Bulgaria e Romania parte di un pacchetto unico, l’Olanda ha finito per opporsi all’entrata di entrambi.
Il cancelliere austriaco Karl Nehammer ha lamentato l’esistenza di 75.000 persone "irregolari" nel Paese, aggiungendo che "20.000 passano per la Romania", una frase ambigua che non chiarisce se queste due cifre siano collegate o meno
A creare sorpresa è stato però il veto dell'Austria, una decisione che sembra giustificata sulla base di argomentazioni improntate alla securitizzazione della migrazione, argomentazioni spesso evidenti nella retorica adottata da partiti di governo di centrodestra sotto la pressione di forze di estrema destra in patria. Di punto in bianco, il cancelliere austriaco Karl Nehammer (Övp) ha lamentato l’esistenza di 75.000 persone "irregolari" nel Paese, aggiungendo che "20.000 passano per la Romania", una frase ambigua che non chiarisce se queste due cifre siano collegate o meno. Bucarest ha prontamente smentito i numeri, sottolineando che la Romania non fa parte di nessuna delle principali rotte migratorie verso l'Ue.
La via d’accesso più utilizzata rimane, infatti, la rotta dei Balcani occidentali, rotta che esclude sia la Romania sia la Bulgaria. Come dichiarato dalla forza di frontiera romena, solo l'1-2% delle persone che utilizzano la rotta dei Balcani occidentali passa attraverso la Romania e i numeri odierni sono addirittura del 50% inferiori a quelli dello scorso anno. I politici romeni hanno così invitato Vienna a supportare con prove i numeri citati dal cancelliere, un invito che, ad oggi, è rimasto senza risposta. Ma non importa, perché l'associazione tra migrazione irregolare, Romania e la pressione sul sistema austriaco di asilo e previdenza sociale era ormai stata creata.
La securitizzazione della migrazione viene solitamente attuata attraverso il mantra della sicurezza: lo stesso cancelliere austriaco ha insistito sul fatto che si tratti di "una questione di sicurezza". Il ministro dell'Interno austriaco, Gerhard Karner, ha fatto eco alle affermazioni di Nehammer asserendo, persino, che sia sbagliato allargare i confini Schengen, un sistema già di per sé malfunzionante. Una constatazione che però non è stata applicata al caso croato, considerato come l’Austria abbia dato l’assenso all’adesione dello Stato balcano, ma non di Bulgaria e Romania. Una scelta che appare ancora più incongruente se consideriamo come, a detta della stessa Ue, Ungheria e Croazia sono i Paesi europei "più colpiti dai flussi migratori sulla rotta dei Balcani occidentali". Ma la fusione tra la retorica anti-immigrazione e la questione della sicurezza nazionale è un espediente politico di lungo corso che non richiede supporto empirico per riscuotere sostegno elettorale.
Di sicuro, tale espediente non è passato inosservato a livello europeo. Othmar Karas, che oltre a essere vicepresidente del Parlamento europeo è anche collega di partito del cancelliere austriaco, non solo ha affermato che bloccare l’allargamento di Schengen non contribuirebbe a risolvere il problema dell'aumento delle richieste d’asilo registrato nel Paese d’oltralpe, ma anche che confondere le due questioni sia irresponsabile. Non sembra quindi così infondata l’accusa che il doppio standard applicato ai tre Paesi est-europei sia stato motivato più da un tentativo di placare le pressioni interne esercitate sull'Övp da parte di Fpö – il partito di estrema destra austriaco in crescita nei sondaggi elettorali – che da motivazioni oggettive e giustificate.
Non sembra quindi così infondata l’accusa che il doppio standard applicato ai tre Paesi est-europei sia stato motivato più da un tentativo di placare certe pressioni interne che da motivazioni oggettive e giustificate
Che i voti in seno al Consiglio, dove il veto è un’eventualità non remota, riflettano la forza delle dinamiche intergovernative e la forza e l'influenza di alcuni Stati sopra altri non è una sorpresa. Tuttavia, il fatto che tali voti possano essere determinati a tal punto dall'agenda nazionale dei partiti, e essere completamente scollegati e in disaccordo con l'agenda dell'Ue, è molto più sorprendente. Con una guerra al confine dell’Europa, quando l'unità è fondamentale, le agende nazionali hanno trionfato ancora una volta. Questo nonostante le sollecitazioni della Commissione al Consiglio di approvare senza esitazione l’adesione di Croazia, Bulgaria e Romania allo spazio europeo di libera circolazione.
L’effetto immediato della chiusura a bulgari e romeni è stato quello di mettere in moto circoli viziosi in cui altri programmi nazionalisti innescano simili reazioni di chiusura nei Paesi respinti. Questa volta non si tratta di Paesi che scelgono di rinunciare a una maggiore integrazione nonostante ne soddisfino i criteri d’adesione; si tratta di Paesi che vengono esclusi, contro la loro stessa scelta e i loro sforzi, nonostante abbiano soddisfatto i criteri tecnici di adesione. In Romania, la decisione di Austria e Paesi Bassi è stata vissuta come un rigetto, provocando un’ondata di euroscetticismo e rischiando di alimentare ulteriormente la percezione di essere cittadini europei di seconda-classe. Ad esempio, figure rumene di alto profilo, tra cui un eurodeputato liberale, hanno chiesto il boicottaggio dei prodotti austriaci, e il partito romeno di estrema destra, Aur, non ha perso un secondo per inquadrare l’umiliante rifiuto come un atto di sfida da parte dei popolari europei.
La morale di questa storia è che il trionfo di programmi nazionalisti dà vita ad altri programmi nazionalisti altrove. Con i veti di Schengen, l'Unione europea perde un’altra opportunità di essere un po' meno differenziata e, probabilmente, più unita.
[Traduzione di Margherita de Candia].
Riproduzione riservata