Non c’è grande Paese europeo nel quale i dislivelli sociali, culturali, economici e amministrativi tra i suoi diversi territori siano più accentuati dei nostri, in cui esista da sempre una “Questione meridionale”, il più grave problema dello State and Nation building italiano. Poiché ben pochi in Italia, a differenza che in Spagna o Gran Bretagna, mettono ora in dubbio l’unità politica del Paese – la Lega sembra aver cambiato cavallo – dove indirizzare l’attività prevalente di una seconda Camera, una volta spogliata del potere di esprimere la fiducia al governo, ha sempre trovato concorde gran parte degli studiosi e dei politici: doveva trattarsi di una camera delle regioni e delle autonomie territoriali. E poiché da tempo l’esigenza di superare il bicameralismo paritario – Camera e Senato fanno le stesse cose e hanno gli stessi poteri – è ampiamente condivisa, ora che la questione del bicameralismo è uscita dal limbo delle ipotesi astratte ed è diventata proposta del governo un osservatore un po’ ingenuo si sarebbe atteso che la discussione si rivolgesse a come concretamente organizzare la trasformazione del Senato in una istituzione democratica in cui le rappresentanze dei territori possano esprimersi e contribuire alla grande missione dell’unificazione del Paese.
Se si escludono contributi distanti dal mondo della politica, sono ben pochi gli interventi nell’arena pubblica animati da questo spirito e che partano da questi presupposti: la riforma si farà, si farà in questa legislatura, i membri del Senato saranno designati dalle autonomie locali, e vediamo allora quali funzioni attribuire a questa istituzione e come organizzarla al meglio al fine di assolvere alla missione che intendiamo consegnarle. La gran parte delle polemiche e degli interventi dei politici che contano sono centrati sul “Renzi sì/Renzi no”, su come impedire al governo di portare a termine la riforma o come favorire questo disegno. Forse il governo ha sbagliato a contare tanto sul consenso generico sui due cardini della riforma (eliminazione del bicameralismo paritetico e Senato come rappresentanza delle autonomie) e a non intervenire sin dall’inizio con un white paper che indirizzasse la discussione sulla giustificazione politico-culturale della sua necessità e sui problemi concreti della sua attuazione. (Anche se non credo che quelli del “Renzi no” – le opposizioni esterne e soprattutto l’indomabile opposizione interna allo stesso Pd – ne sarebbero stati molto impressionati: via, non siamo inglesi!) Ma ormai siamo agli sgoccioli e la scelta sul “Renzi sì/Renzi no” si svolgerà nei prossimi giorni su tutt’altre basi.
Se la riforma del Senato passa (e non poco dipenderà con quali cambiamenti e con quale maggioranza) i problemi di un indirizzo efficace alla sua attuazione diventeranno impellenti, poiché si tratta di una trasformazione culturale e organizzativa che fa tremare le vene ai polsi, prenderà molto tempo ad andare a regime e avrà conseguenze difficilmente prevedibili. Per dare un’idea, mi limito ad accennare a due problemi e parto da quello minore. L’attuale Senato ha un corpo di funzionari di eccezionale qualità intellettuale e competenza tecnica. Qualità e competenze che sinora si sono esercitate a ridosso di Commissioni che sono una replica di quelle della Camera. Ma se il Senato non sarà più un doppione della Camera, possono Commissioni e competenze restare le stesse? E può un corpo formato essenzialmente da giuristi aiutare i nuovi senatori a valutare provvedimenti che avranno essenzialmente a che fare con il federalismo fiscale, lo sviluppo territoriale, l’efficacia della pubblica amministrazione (centrale e locale) nelle diverse regioni? Non si porrà un grande problema di retraining (data la qualità del personale, non ho dubbi sul suo successo) e soprattutto di acquisizione di nuove competenze?
Il secondo problema è quello politicamente centrale. A parte alcuni sindaci di grandi città e pochi senatori a vita, i nuovi senatori saranno designati dai consigli regionali tra i loro membri. Le elezioni regionali si svolgeranno sempre su base partitica. Due domande. Quale potrà essere la qualità intellettuale, morale e politica di senatori così scelti? Al momento non è eccelsa: non sono molti i consiglieri regionali che si approssimano all’ideale di saggezza e di equilibrio che il titolo di senatore evoca e sui nomi di potenziali “senatori” alcuni giornali hanno già cominciato a scherzare: la botte dà il vino che ha e quello regionale non è dei migliori. E quale sarà il vincolo che essi maggiormente avvertiranno, quello di rappresentante del territorio, in un Senato che dovrebbe avere la grande missione nazionale di cui dicevo, o di membro fedele del partito o della fazione di appartenenza? Così fedele da boicottare provvedimenti in discussione solo perché proposti da un governo che è l’espressione di partiti diversi o di favorirli solo perché proposti dal proprio? Questo è un problema che ha avuto un grande rilievo nell’esperienza del Bundesrat tedesco e che ha condotto nel 2006 a restringerne fortemente i poteri (all’origine molto incisivi) allo scopo di ridurre gli inevitabili cortocircuiti tra la rappresentanza politico-partitica e quella territoriale.
Sono solo due, uno piccolo e uno grande, dei tanti problemi che si presenteranno, se e quando la riforma passerà. Peccato che il “Renzi sì/Renzi no” non abbia consentito di discuterne prima, quando una discussione pacata avrebbe potuto influire sulla qualità del testo costituzionale.
[Questo articolo di Michele Salvati è uscito sul «Corriere della Sera» del 14 settembre 2015]
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