Chi ha visto Noi credevamo, di Mario Martone, sostiene di averlo trovato bello e per nulla noioso. Nonostante la durata. Tra i critici, c’è addirittura chi è arrivato a fare paragoni impegnativi con Visconti. Può quindi valere la pena di farsi un po’ di fila al botteghino (le cronache dei primi giorni di proiezione parlano appunto di file) per rinfrescarsi la memoria e preparasi alle celebrazioni dei 150 anni. Intanto, sulle pagine del “Corriere della Sera” online dedicate all’Unità d’Italia, si possono vedere i primi dodici minuti del film, per un primo assaggio.A firmare la sceneggiatura, con lo stesso Martone, è anche lo scrittore Giancarlo De Cataldo, autore non a caso del romanzone recentemente uscito da Einaudi, I traditori. A differenza del film, del libro molti non parlano benissimo. Abbiamo chiesto a uno storico, Paolo Pombeni, di leggerlo e di girarci la sua opinione. Eccola.
Che dire di un romanzo ampio e dalla struttura complessa come I traditori, di Giancarlo De Cataldo, che ha trovato subito un’ampia eco sui media? Il giudizio letterario spetta chi fa il critico di mestiere, e non è il mio caso. Posso mettermi solo in due panni:quello del lettore e quello dello storico. Ci posso aggiungere un poco di riflessioni come persona abituata per mestiere a riflettere su quella che si chiama la sfera pubblica. Più in là non posso andare.
Come lettore ammiro la complessa architettura della trama, che tenta un affresco che vuole essere grandioso di un’epoca, quella che porta all’Unità d’Italia, collegandola al contesto europeo, soprattutto britannico. La vicenda, coi suoi molti personaggi immaginari e con quelli presi dalla storia reale (ma che, come vedremo, sono altrettanto inventati), scorre via veloce e l’intreccio prende: in fondo il libro parla di cospiratori e spie, depravati e criminali. Per i miei gusti il libro è un po’ troppo lungo e le ultime parti sono meno riuscite: le conclusioni sono un po’ troppo “macchinose” e le spiegazioni che si affacciano sanno molto di luogo comune. Ovviamente un luogo comune à la page.
Sono osservazioni che ovviamente non valgono nulla, perché ogni lettore ha i suoi gusti e De Cataldo è uno scrittore di successo, segno che incontra i gusti di molti, mentre io ho gusti poco inclini a questo genere di letteratura.
Il problema dal punto di vista del giudizio dello storico di professione è invece un poco più intrigante. L’autore ha scelto di farci intendere nel libro (e lo ha detto esplicitamente nelle interviste che ha concesso) che il suo è un romanzo storico. Anzi, è una storia di denuncia, perché ci presenta, come sottolinea il suo editore, “il lato oscuro del Risorgimento”. Che De Cataldo abbia letto un bel po’ di documentazione sull’età del Risorgimento non c’è dubbio; che abbia letto quella giusta e che abbia capito quell’epoca francamente ne dubito. Il suo è un romanzo “storico” come lo sono I tre moschettieri di Dumas: come non c’è studioso serio che direbbe a uno studente di capire la Francia dell’epoca e il cardinale Richelieu con quella fonte, non credo si possa dire qualcosa di diverso per questo libro.
Non si tratta di negare che ovviamente anche per il nostro Risorgimento si sia di fronte a una storia di luci e di ombre: nessuna storia umana ne è esente. Alquanto dubbio è invece sostenere che la nostra storia nazionale sia una storia di puri intrighi e violenze a cui rispondono solo ingenuità di giovani, che finiscono regolarmente nelle spire della macchina del potere. Succede naturalmente anche questo, ma, grazie a Dio, non è esattamente la regola. Non è un “romanzo criminale” la nostra storia, come non lo è quella della maggior parte dei Paesi: non che si tratti di storie tutte di eroi e di santi, ma, insomma, le regole sono altre, gli “arcana imperi” non sono quelli della Spectre dei film di James Bond.
Qui invece la trama è un po’ quella: giovani idealisti che si fanno ingabbiare in storie più grandi di loro, personaggi storici che sono mossi da bassi giochi di potere, un Mazzini idealista e un po’ tonto, e poi tanti “caratteri” che sembrano presi dal romanzo d’appendice (la donna aristocratica e idealista, quella strega e misteriosa, il lord inglese sadico, il giornalista americano massone, il bandito sardo comunque d’onore, il giudice laido, il militare carrierista, il camorrista e il mafioso che sanno intrufolarsi nei gangli del potere). Un affresco senza dubbio molto efficace per catturare il lettore e tenerlo avvinto per “vedere come va a finire”: le pagine scorrono veloci, la sovrapposizione delle storie parallele è molto abile, l’affresco ha un suo respiro sia sul piano descrittivo sia nella capacità di toccare corde differenti nel lettore.
Tuttavia, come piccolo uomo cui tocca di riflettere in pubblico, mi viene spontanea una domanda: perché siamo alla ricerca di questo tipo di rappresentazione? Mi sbaglierò, ma c’è molto influsso della produzione di spettacolo corrente, tanto coi film, quanto coi telefilm, a cui si aggiunge la mania tutta nostra di raccontarci una storia alla rovescia: quella di un’Italia che, insomma, è il prodotto di una storia miserabile, quella che si ritiene spieghi anche il nostro non esaltante presente.
Invece non è così, almeno sul piano della storia, quella vera. Con le sue luci e le sue ombre, la storia del nostro Paese non è quella adombrata nelle pagine di questo romanzo. Ovviamente non c’è alcun dovere per un romanzo di essere “verista”. I tre moschettieri si leggono piacevolmente, anche se Mylady non spiega affatto la Francia di Richelieu e D’Artagnan è una figura letteraria che ha deboli legami con eventuali personaggi realmente esistiti che possono averlo ispirato. Così è per I traditori, che va dunque giudicato, da chi è competente e non da me, per la sua qualità letteraria, e dal pubblico per il suo successo.
Però la domanda sul perché oggi si accolga un romanzo di fantasia come rivelatore della presunta “vera” natura della nostra storia nazionale, non riesco a togliermela dalla testa. E la risposta che sarei tentato di darmi non è per nulla confortante.
G. De Cataldo, I traditori, Torino, Einaudi, 2010, 582 pp.
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