Nessuno, per fortuna, sembra mettere in dubbio che l’aggressione militare russa all’Ucraina sia stata una scelta consapevole di Putin: da qui la condanna, anche se in forme molto diverse. Dietro questa apparente unanimità, tuttavia, vi è una profonda divisione che in Italia si manifesta con la convinzione, da parte di molti giornalisti, politici, opinionisti, che qualche giustificazione il dittatore del Cremlino l’avesse. Ci si sofferma così sulle colpe e sulle responsabilità dell’Occidente.

Personalmente, dopo lo sgomento per l’attacco militare e la preoccupazione per le vittime ucraine, la rabbia per la prepotenza imperiale di Putin che sembra incarnare la volontà espansionistica dello zarismo e dello stalinismo, trovo inaccettabile i distinguo sulle «colpe» della guerra in atto che molti, a destra e a sinistra, continuano a manifestare da noi, naturalmente dopo la condanna di rito all’invasione. Sono troppe le persone che hanno un rilievo pubblico e influenzano l’opinione generale che condividono, di fatto, il ragionamento di Putin sulle responsabilità della situazione di crisi tra Russia e Ucraina, anche se ne condannano – e non potrebbero fare altrimenti – la scelta di avere iniziato l’azione militare.

Qualcuno può davvero credere che una simile  potenza militare possa avere timore di una qualche offensiva sui propri confini?

Questo ragionamento, che è lo stesso che fa Putin da anni, si fonda sul «pericolo» che la possibile e richiesta adesione all’Unione europea e alla Nato da parte dell’Ucraina costituirebbe per la sicurezza della Russia. Qualcuno può davvero credere che una potenza militare che è pari a quella degli Stati Uniti possa avere timore di una qualche offensiva sui propri confini, che coinvolgerebbe ovviamente l’Europa e il mondo intero in una guerra nucleare? Il «pericolo», tuttavia esiste, ma è un pericolo politico che Putin non può tollerare: quello di avere ai propri confini Stati che stanno – con fatica, lentezza e contraddizioni – camminando verso la democrazia e la libertà. Un pericolo di contagio democratico, questo è il motivo della faccia feroce che Putin da anni sta facendo sui suoi confini orientali, dietro la scusa della «minaccia» della Nato e dell’allargamento dell’Unione europea.

Se una colpa l’Occidente deve rimproverarsi non è quella di avere avuto un atteggiamento ambiguo o addirittura aggressivo verso il problema della «sicurezza» rivendicata da Mosca: ma di non avere compreso che la strategia di Putin, in modo sempre più chiaro negli oltre vent’anni di potere che sta celebrando, non è riconducibile a una logica da Guerra fredda, di minacce reciproche per restare fermi in una situazione di deterrenza permanente. Putin, come aveva già manifestato ampiamente in Cecenia e in Georgia (che l’Occidente riteneva comunque ancora nella «sfera d’influenza» russa ragionando come ai tempi della Guerra fredda), e come avrebbe mostrato senza più alcun dubbio con l’occupazione della Crimea nel 2014, ha come stella polare della sua azione il ristabilimento dell’impero zarista-sovietico, anche se non con un controllo pieno e diretto come era avvenuto ai tempi dell’Urss.

La reazione – meglio, la mancata reazione – all’occupazione della Crimea ha convinto Putin che la debolezza dell’Occidente era ormai un dato storico ineliminabile, accentuato ancor più dal precipitoso ritiro dall’Afghanistan nel 2021.

La mancata reazione all’occupazione della Crimea ha convinto Putin che la debolezza dell’Occidente era ormai un dato storico ineliminabile, accentuato ancor più dal precipitoso ritiro dall’Afghanistan

Dal 2014 l’Occidente e l’Europa avevano tutto il tempo – pur evitando scelte affrettate sull’adesione dell’Ucraina a Unione europea e Nato – per rafforzare la difesa militare, tecnologica ed economica di Kiev, per ridurre drasticamente la dipendenza energetica nei confronti del gas e del petrolio russo, soprattutto da parte di Germania e Italia, di aiutare con maggiore forza e determinazione le forze democratiche in Russia e prendere provvedimenti che indebolissero realmente i gerarchi e gli oligarchi del Cremlino in Russia e fuori. Non lo si è fatto perché si è ritenuto che, in una logica da Guerra fredda, Putin non avrebbe mai mosso guerra all’Ucraina e che la conquista della Crimea era stata un’occasione presa al volo e un evento irripetibile. Basti pensare, cosa che nessuno sembra avere il coraggio di fare con una seria autocritica, agli insulti e ai dileggi rivolti a Biden e all’amministrazione statunitense che in queste ultime settimane raccontavano al mondo intero, con una strategia nuova di comunicazione delle informazioni di intelligence, quello che Putin stava preparando e che si è avverato quasi al minuto.

Non va dimenticato, inoltre, che solo all’inizio del suo potere Putin, nel 2002 con la formazione del Nato-Russia Council, sembrò continuare nella strada intrapresa dalla Russia negli anni Novanta del secolo scorso, con la Partnership for Peace (1994) e il Nato-Russia founding Act (1997), che avevano segnato l’accettazione dell’allargamento della Nato a Est e una fase di collaborazione tra Russia e Occidente. Il rafforzamento della repressione in Cecenia, la guerra contro la Georgia per l’Ossezia del Sud nel 2008, la costruzione di una dittatura sempre più forte all’interno, segnata dalle uccisioni di Anna Politkovskaja nel 2006, di Boris Nemtsov nel 2015, dal tentativo di omicidio e dall’incarcerazione di Aleksej Naval’nyj nel 2020-21, dalla messa fuori legge di Memorial, non ha spinto a vedere nella strategia di Putin un mutamento profondo rispetto sia agli anni della Guerra fredda che al decennio dopo di essa.

Il richiamo alla storia con cui Putin ha spiegato l’inesistenza autonoma dell’Ucraina non è solo il gioco abituale dei dittatori che utilizzano e manipolano la storia ai propri fini: è una dichiarazione d’intenti

Il richiamo alla storia con cui Putin ha spiegato l’inesistenza autonoma dell’Ucraina, rivendicata come parte tout court della Russia, non è solo il gioco abituale dei dittatori che utilizzano e manipolano la storia ai propri fini, è una dichiarazione d’intenti che è stata ignorata e sottovalutata perché, ancora una volta, i nostri politici, giornalisti, e anche alcuni studiosi (per fortuna di minoranza), hanno continuato a guardare con gli occhi della Guerra fredda questa nuova realtà, incapricciandosi della spiegazione Nato sì/Nato no come spiegazione di tutto.

Ci si è dimenticati, ad esempio, che appena qualche settimana fa la dichiarazione congiunta di Putin e Xi Jinping del 4 febbraio 2022 (di cui le poche testate italiane che ne hanno parlato hanno sottolineato come «non» fosse ancora un’alleanza) parlava di inizio di una «nuova era» in cui non fosse più determinante la “democrazia dell’occidente» ma ogni nazione potesse scegliersi le «forme e metodi di attuazione alla democrazia che meglio si adattano al loro stato». La richiesta di «garanzie di sicurezza» a lungo termine per l’Europa, accolta in genere favorevolmente dai commentatori come una nuova Helsinki o addirittura una nuova Yalta, era invece il segnale del rifiuto del multipolarismo esistente e della riaffermazione di una logica di forza che Putin ha appena manifestato invadendo l’Ucraina e Xi Jinping si prepara a fare con l’annessione di Taiwan.

Resta da aggiungere, anche se ancora è presto per giudicare misure che si stanno prendendo e valutando nelle prossime ore, che il tipo di sanzioni che verranno prese contro la Russia saranno il segnale di quanto l’Europa abbia effettivamente compreso la natura e la strategia dello zar del Cremlino o continui a guardare alle sue azioni con l’ottica e l’illusione degli anni Settanta-Novanta del secolo scorso.