Che cosa aspettarsi da Trump e dai repubblicani da qui alle presidenziali del 2024 dopo il terremoto delle elezioni di metà mandato? Come ormai d’abitudine, nella seconda parte del mandato presidenziale si avrà un governo “diviso”: la Casa Bianca e il Senato ai democratici (quest’ultimo in misura infinitesimale), mentre la Camera ai repubblicani, con una maggioranza che conta di nuovo su soli 5 seggi, il che accentua la poco costituzionale tendenza a governare attraverso atti esecutivi e amministrativi.

Il tramonto ormai pluri-decennale del sistema storico di un partito “sole” dominante e di uno “luna” di rincalzo, in favore invece di un voto immobilizzato tra i due schieramenti dalla radicalizzazione competitiva, spinge ad anticipare la campagna presidenziale del 2024, con due candidati, entrambi, seppur diversamente, problematici. Da una parte Biden lascia intuire la sua ricandidatura malgrado la sua impopolarità, dall’altra Trump l’ha ufficializzata per proteggersi dalle molte inchieste e grane legali, per assorbire la sconfitta alle intermedie e inoltre per costringere i potenziali concorrenti a esporsi esplicitamente rispetto all’aspirante primario, voluto dalla base militante e dai potenti quadri repubblicani trumpiani. Sorprendentemente, tuttavia, pochissimi tra i principli esponenti repubblicani e governatori del partito si sono dichiarati subito sostenitori di Trump e questa critica crescente, seppur implicita, alla sua candidatura lo sta mano a mano, sileziosamente erodendo.

Dunque, come si potrebbe sviluppare l’iniziativa repubblicana nei prossimi due anni? Le elezioni di midterm sono state una “sconfitta” del Great Old Party (Gop), in chiave di un’attesa, ma mancata, netta vittoria e una vera débâcle per Trump: l’estremismo delle candidature non ha pagato, diversi dei sostenitori più noti del “furto elettorale” del 2020 sono stati sconfitti, e, benché un loro folto gruppo sia comunque entrato in cariche soprattutto statali e locali, la sponsorizzazione di Trump si è rivelata decisiva talvolta anche in negativo. Sconfitto alle presidenziali del 2020 e alle elezioni di metà mandato del 2018 e 2022, Trump resta fortissimo negli apparati repubblicani statali e nelle primarie del partito dove votano i più militanti.Tuttavia, la precedente convinzione che l’opposizione di Trump fosse la condanna a morte elettorale per qualunque candidato repubblicano si accompagna ora nell’establishment di tradizione reaganiana al timore di “Trump-il perdente”.

Allo stesso tempo, i repubblicani devono decidere come gestire la risorsa (e la responsabilità) del nuovo predominio alla Camera. Con un Congresso così diviso, dicono molti osservatori, le due parti cercheranno di massimizzare la polarizzazione, promuovendo provvedimenti inapprovabili ad alto contenuto simbolico e capaci di mobilitare il proprio elettorato, fattore decisivo in un elettorato “calcificato” dove pochissimi votanti cambiano schieramento, ma quei pochissimi possono da soli decidere la vittoria. I congressisti Maga (la sigla dei trumpiani) intendono quindi proseguire la “guerra civile politica”, già da tempo condotta a livello statale su temi come l’accesso al voto, le politiche culturali e scolastiche, quelle migratorie, le energie rinnovabili, l’aborto, i diritti delle minoranze sessuali e l’impegno a promuovere la leadership mondiale del Paese. La maggioranza alla Camera tarperebbe così le iniziative legislative democratiche e utilizzerebbe il suo diritto d’inchiesta per bloccare quelle contro Trump e proporre un impeachment contro Biden, e/o contro il ministro della Giustizia, colpevole della perquisizione nella residenza trumpiana di Mar-a-Lago.

L’approccio repubblicano più estremista ha trovato un rappresentante alternativo nel governatore della Florida, Ron DeSantis, padre di una legislazione statale basata su un populismo radicale: un vero e proprio “trumpismo senza Trump”

Questo approccio estremista ha perso sì le elezioni, ma resta fortissimo nei quadri trumpiani del partito e nella base più ideologizzata e ha trovato un rappresentante alternativo nel governatore della Florida, Ron DeSantis, rieletto trionfalmente, più giovane, senza gravami di malefatte legali e padre di una legislazione statale basata su un populismo radicale, un vero e proprio “trumpismo senza Trump”. Qualche rilevazione d’opinione lo vede addirittura come candidato repubblicano preferito a Trump, che lo teme e lo ha già riempito di contumelie ricattatorie.

E tuttavia, per i repubblicani reaganiani dell’establishment nazionale, prendere le distanze da questa politica perdente ma ancora ben radicata è molto complicato. Ad esempio, la menzogna del “furto elettorale” del 2020, che trasparenza e convenienza indurrebbero ad abbandonare, viene ancora invocata in nome dell’integrità delle elezioni a sostegno delle numerose leggi statali repubblicane che rendono più difficile l’esercizio del voto soprattutto alle minoranze filo-democratiche. Ancora più importante, la Corte Suprema sta per discutere un’ipotesi di reinterpretazione della legge elettorale che ne accentuerebbe la partigianeria e, come negli anni Trenta, la schiererebbe nuovamente, come nei casi recenti dell’aborto, della politica ambientale e dei poteri federali, a colonna portante del radicalismo trumpiano.

Autorevoli voci repubblicane tuttavia, come il leader congressuale Mitch McConnell, l’ex-vicepresidente Mike Pence o l’autorevole senatore della North Carolina Lindsey Graham, che hanno sponsorizzato candidati non-trumpiani alle intermedie, sottolineano sommessamente l’autolesionismo elettorale dell’approccio estremista e la scarsa qualità dei candidati trumpiani. Contro la prevalente ipotesi della “calcificazione” del voto, nuovi dati sembrano invece suggerire che la defezione verso i democratici dei votanti repubblicani non-Maga e degli indipendenti più filorepubblicani sia stata piuttosto significativa.

Data la risicatissima maggioranza alla Camera, bastano quattro o cinque “repubblicani responsabili” per impedire approcci estremistici come la bocciatura dell’aumento del debito pubblico, il lancio di inchieste contro Biden o la critica della politica estera rispetto alla guerra in Ucraina

La “guerra civile” politica, obiettano i dirigenti reaganiani, soddisferebbe davvero l’elettorato repubblicano e gli indipendenti? Oppure la nuova responsabilità dovuta alla riconquista della Camera nutre aspettative di una produzione legislativa in positivo, anche a costo di rivalorizzare accordi bipartisan, come è successo con la legge sulle infrastrutture e più di recente con quella di tutela dei matrimoni omosessuali? Questo impone un silenziatore alle politiche più controverse, come l’election denial, ma anche l’opposizione radicale all’aborto, che è stata sconfitta in tutti e cinque i referendum sul tema anche in Stati conservatori, ha galvanizzato i democratici, e così stanno emergendo proposte repubblicane di compromesso. Come sottolinea Mario Del Pero, data la risicatissima maggioranza alla Camera, bastano quattro o cinque “repubblicani responsabili” per impedire approcci estremistici come la bocciatura dell’aumento del debito pubblico, il lancio di inchieste contro Biden o la critica della politica estera rispetto alla guerra in Ucraina. Ma la domanda è se “Trump sia uscito dal voto talmente indebolito da permettere loro di uscire allo scoperto senza temere di dover pagare un dazio pesante in termini politici ed elettorali.”

Secondo l’ex-presidente del Republican National Committee (Rnc), Michael Steele, ora in rotta con Trump, quest’ultimo ha ancora l’80% di probabilità di essere il candidato del 2024. L’attuale presidente dello stesso Rnc, la carica più potente di partito, Ronna McDaniel, trumpiana doc, sta per essere sorprendentemente rieletta per la terza volta dal 2017, anche se ha visto solo sconfitte elettorali. Tuttavia la compattezza del sostegno del partito si è incrinata, le voci critiche sono diventate più esplicite o quantomeno indovinabili, il campo delle candidature presidenziali sembra allargarsi, sia verso un “trumpismo senza Trump”, sia verso un neo-reaganismo conservatore, certamente accentuato ma meno divisivo e meno estremista.