La vicenda della nomina del giudice Brett Kavanaugh alla Corte suprema ha riportato prepotentemente al centro del dibattito pubblico americano il tema della politicizzazione del potere giudiziario.

L’esito del voto finale, la retorica militante del candidato stesso, le grandi campagne di mobilitazione pubblica e l’uso propagandistico da parte di entrambi i partiti nel corso della campagna elettorale appena conclusa segnalano che, perlomeno in quest’ambito, l’ascesa di Donald Trump alla presidenza non ha stravolto la tradizionale contrapposizione ideologica fra conservatori e progressisti.

L’intreccio fra politica e sistema giudiziario negli Stati Uniti è però un fenomeno di lungo periodo, che coinvolge non solo le posizioni apicali ma l’intera struttura. Un utile punto di osservazione di tali dinamiche sono i District attorneys (Da), ossia la magistratura inquirente dei singoli Stati federati, generalmente a capo di una giurisdizione con le dimensioni di una contea. Mentre a livello federale i procuratori sono designati a piacimento dall’esecutivo, a livello locale la quasi totalità degli Stati dell’Unione seleziona i propri Da – seppur con modalità diverse – a suffragio universale.

I Da godono di ampia discrezionalità nella formulazione e nell’implementazione della politica giudiziaria e di sicurezza all’interno della propria giurisdizione. In un sistema in cui non vige l’obbligatorietà dell’azione penale, dove una grande quantità di casi viene patteggiata al di fuori del processo e dove l’onnipresenza delle giurie e la legislazione sulle pene minime obbligatorie limitano in maniera considerevole l’autonomia della magistratura giudicante, i Da prendono decisioni politicamente determinanti per la vita sociale del Paese: basti pensare al dato sulle incarcerazioni, che, come è noto, colpiscono in modo assolutamente sproporzionato le minoranze etniche e i ceti più svantaggiati.

Che influenza esercita l’elezione popolare sulla selezione del personale giudiziario? Da un punto di vista professionale, invece di costituire una carriera burocratica a sé stante, la carica di Da rappresenta una tappa nel cursus honorum legale e politico. I candidati Da provengono quasi esclusivamente da studi legali; la loro preparazione giuridica è quindi garantita da una limitazione di fatto dell’elettorato passivo a tecnici del diritto formati dall’avvocatura. A sua volta, la carica è un trampolino di lancio privilegiato per una carriera politica: numerosi membri del Congresso federale hanno un passato da procuratore. Tale esperienza professionale di rappresentanza “fattiva” dell’interesse pubblico è particolarmente prestigiosa in assemblee legislative, come quelle statunitensi, che non sono mai state conquistate numericamente dai quadri di partito, e che sono rimaste quindi simili ai Parlamenti europei dell’Ottocento, dominate dalla professione forense (e da quella castrense).

Tuttavia, se l’eleggibilità dei Da non ha provocato un livellamento populista verso il basso delle loro competenze tecniche, grazie all’auto-selezione professionale dei candidati, a livello demografico vi è stato un notevole effetto di omogeneizzazione. Come mostra uno studio del 2015, il 95% degli oltre 2.400 procuratori distrettuali americani è bianco e più dei quattro quinti è di sesso maschile.

Quando si sottopongono al giudizio degli elettori, i candidati procuratori in genere enfatizzano il proprio curriculum professionale piuttosto che le loro preferenze politiche. Spesso, ma non sempre, la carica viene considerata non-partisan, ossia non viene riportata sulla scheda elettorale l’appartenenza politica dei candidati. L’ubiquità della retorica securitaria non preclude una differenziazione più sottile, sensibile alle particolarità demografiche della circoscrizione (si paragoni ad esempio il manifesto elettorale di Bill Fazio, un candidato Da nella progressista San Francisco, con quello di Troy Rawlings, che mira alla rielezione a Davis County, un sobborgo “dormitorio” di Salt Lake City, nello Utah, sede di una base dell’aereonautica). Un punto dolente del sistema è rappresentato dalle donazioni per le campagne elettorali, che sembrerebbero chiamare in causa la futura imparzialità degli eletti. Tuttavia, il fatto che oltre l’80% dei Da risulti eletto come unico candidato in lista dimostra il grado di depoliticizzazione tradizionale di tali procedure, che si configurano più come eventuale sanzione ex post contro magistrati insufficientemente solerti che come scelta ideologica ex ante fra alternative di politica giudiziaria.

Vi sono tuttavia sintomi di una trasformazione in atto. Nel contesto di movimenti sociali quali #MeToo e Black Lives Matter, la mancanza di diversità nei ranghi dei Da nel loro complesso rappresenta un problema evidente: la mancanza di attenzione nei confronti di fenomeni di discriminazione istituzionalizzata ne è la logica conseguenza (si veda il recente studio di Nicole Gonzales Van Cleve). Per contrastare tale fenomeno, sono nati gruppi di pressione nazionali (ad esempio, il Political Action Committee Real Justice). Tale fenomeno si spiega in parte come un eccesso di offerta di risorse economiche per la politica, che tende a espandere il mercato delle elezioni contendibili a fronte di un impatto marginale decrescente in competizioni mediaticamente sature (e ciò anche per venire incontro al desiderio di protagonismo politico dei cosiddetti mega-donors, che mirano a influenzare l’orientamento politico generale dei procuratori, incoraggiando per esempio le candidature a Da di attivisti storici dei diritti civili). Quanto tale strategia si trovi a fronteggiare ostacoli strutturali poderosi è dimostrato dalla recente campagna elettorale ad Alameda County, in California, uno dei distretti più di sinistra del Paese, in cui, ciononostante, l’elettorato si è schierato in base a prevedibili criteri etnici e socio-economici. D’altra parte, i riformatori hanno anche registrato successi clamorosi, quale l’elezione di Larry Krasner a Philadelphia.

Le politiche di law and order mantengono una forte capacità di attrazione del consenso, non solo grazie al sostegno grassroots delle organizzazioni delle vittime (politicamente mobilitate fin dagli anni Settanta), ma anche per via degli interessi economici della lobby carcerario-industriale privata. Il populismo penale, tuttavia, non regna incontrastato: la recente crisi degli oppiacei, per esempio, ha smentito molti luoghi comuni sulla distribuzione geografica ed etnica della tossicodipendenza e del traffico di stupefacenti.

Le trasformazioni politiche americane spesso vengono da lontano. Potenzialmente, le battaglie più significative per la politica giudiziaria di domani si stanno giocando fuori dalla sala della commissione giustizia del Senato, in insospettabili elezioni non-partisan nel ventre del Paese.

 

[Si ringrazia Chloe Cockburn, Open Philanthropy Project, per i suggerimenti di risorse online.]