«La disponibilità di una buona assistenza medica tende a variare inversamente al bisogno della popolazione servita»: questo concetto venne illustrato su «The Lancet» nel 1971 da Julian T. Hart, medico di base che per trent’anni curò 2.100 persone di Glyncorrwg, villaggio di miniere di carbone nel Galles meridionale.

Hart elaborò la teoria dell’inverse care law (legge dell’assistenza inversa), che anni dopo si tradusse nella pratica nell’Anticipatory Health Care (sanità d’iniziativa), un modello assistenziale per la gestione delle cronicità che consisteva nell’identificare precocemente i problemi di salute trattabili nei pazienti in un sistema gestito dai medici di medicina generale, con ausilio di infermieri preventivamente formati, in un tempo minimo prestabilito di visita/ascolto, includendo l’assistenza a quei pazienti che di prassi non si sottoponevano ai controlli e grazie all’organizzazione di gruppi di persone con patologie croniche comuni.

Lo studio, che arruolò 1.800 pazienti e che venne effettuato nel pieno delle riforme liberiste del governo Thatcher, dimostrò una riduzione della mortalità (30%), un abbassamento della pressione media dei pazienti ipertesi e un calo della percentuale dei fumatori (dal 56 al 20%).

Il modello di Hart si basava sul potenziamento del ruolo dei medici di medicina generale e del territorio. L’esperienza del Covid-19 ha infuso forza a questo modello, che tuttavia oggi deve fare i conti con una visione ospedalocentrica della sanità e con una sempre maggiore specializzazione della medicina.

Se è vero che non dovremmo «mai sprecare una buona crisi», come sentenziò una volta Winston Churchill, allora dovremmo guardare alla pandemia come a un’opportunità: quella di aver acutizzato la forbice tra i nuovi bisogni di salute della popolazione e la risposta che il nostro modello assistenziale può offrire a tali bisogni.

Dovremmo guardare alla pandemia come a un’opportunità: quella di aver acutizzato la forbice tra i nuovi bisogni di salute della popolazione e la risposta che il nostro modello assistenziale può offrire

Secondo il Rapporto Osservasalute 2019, in Italia gli ultra 65enni passeranno dai 14 milioni di oggi a oltre 19 milioni nel 2040. Egualmente, nel 2030 i malati cronici (diabete, ipertensione, obesità…) diventeranno 26,5 milioni e i multipatologici saranno 14,6. Sono questi ultimi a destare maggiore preoccupazione, essendo la plurimorbosità associata, oltre a prognosi peggiore, a un elevato incremento dei ricoveri. Per affrontare il problema, diverse realtà del territorio italiano stanno implementando il modello made in Usa del Chronic care model, basato sul passaggio dalla «medicina d’attesa» alla «sanità d’iniziativa», processo che per la sua complessità non sarà così immediato.

Legata all’aumento del numero di anziani, ma anche ai progressi diagnostico-terapeutici è l’incidenza dei tumori, che ogni anno in Italia vedono 377 mila nuove diagnosi e che richiedono assistenza continua, pena un impatto negativo sull’adeguatezza delle cure, sulla compliance del paziente e sulla sua sopravvivenza.

Oltre ciò si pone poi l’annosa questione del long term care, nonché dell’assistenza dopo la dimissione e della necessità di una forte integrazione tra componente sanitaria e sociale, soprattutto se i pazienti sono anziani soli, persone fragili o con disabilità.

A peggiorare la situazione giunge inoltre il cospicuo pensionamento di medici di medicina generale, quest’anno circa 3.900, secondo le stime della Federazione medici di medicina generale e del Sindacato dei medici dirigenti, che non saranno bilanciati da altrettante nuove assunzioni. A restare spesso prive di copertura medica sono le zone montane, dove il problema si acutizza proporzionalmente all’aumentare della distanza dalla città e dove i posti vacanti sono notoriamente meno appetibili per i professionisti della sanità.

Diversi studi scientifici hanno dimostrato come, laddove le cure primarie siano più forti, è garantita una più equa distribuzione della salute nella popolazione e i costi a carico del Servizio sanitario nazionale tendono a diminuire.

Secondo l’Ocse, l’Italia si colloca al quindicesimo posto fra i 30 Paesi più sviluppati al mondo per spesa in cure e medicinali, su cui investe il 9% del Pil. Se poi guardiamo ai posti letto prima del Covid, che ne ha aggravato la scarsità, l’Italia ne contava 3,2 ogni 1.000 abitanti, quando la media Ue era di 5 ogni 1.000 abitanti.

Grazie alla condizione di emergenza, tuttavia, nonostante la non sufficienza dei fondi, abbiamo potuto mettere in pratica alcuni strumenti e processi che hanno dato prova di efficacia.

In termini di integrazione tra ospedale e territorio, l’organizzazione delle Unità speciali di continuità assistenziale (Usca), costituite da medici di medicina generale, pediatri di libera scelta e altri professionisti, ha creato un importante presupposto, (ri-)portando alla luce una visione proattiva della prestazione medica. A controbilanciare la prospettiva di una maggiore territorialità rimangono tuttavia i problemi relativi al reperimento di professionisti dedicati, alla loro imprescindibile formazione, nonché alla loro equa distribuzione sul territorio.

Le necessità di isolamento durante il lockdown hanno spinto i centri di cura a praticare la telemedicina. Secondo il Rapporto Osservasalute 2020, tra il 1° marzo e il 30 giugno 2020 sono state avviate in Italia oltre 170 iniziative digitali per facilitare la gestione dei pazienti: oltre la metà era basata sull’uso del web (38%) e del telefono (20%), per il resto l’offerta avveniva su piattaforme (29%) o app (13%). Oltre il 60% delle televisite era dedicato a pazienti non-Covid.

L’emergenza ha portato un incremento della telemedicina e una valorizzazione della collaborazione tra specialisti e medici di medicina generale

Gli strumenti di telemedicina si sono dimostrati così utili che verranno mantenuti anche in fase di «normalità». Un passo in avanti, sì, ma spesso le categorie di soggetti che potrebbero beneficiare delle tecnologie digitali sono proprio quelle che vi hanno minor accesso: anziani, popolazioni rurali, categorie a basso reddito o di basso livello culturale.

Ancora, l’emergenza ha fatto sì che venisse potenziata e valorizzata la collaborazione tra specialisti e medici di medicina generale. A Modena, ad esempio, è stato attivato il servizio «specialista on call», una linea telefonica con cui i medici di medicina generale possono consultare gli specialisti. Il servizio ha migliorato i percorsi dei pazienti, ha snellito il lavoro degli specialisti e ha valorizzato l'appropriatezza di visite, esami e terapie e verrà mantenuto anche in epoca post-Covid.

A Parma invece sono state potenziate le Unità mobili multidisciplinari, multiéquipe nate in epoca pre-Covid per portare «l’ospedale al paziente» anziano in Rsa o a domicilio, evitandogli di doversi recare in nosocomio. In tempo di Covid le Unità sono poi state convertite per affiancare le Usca. Un esempio di efficienza dell’assistenza che potrebbe rappresentare un modello, magari nella prospettiva di avere specialisti anche sul territorio.

Seppur ancora in mancanza di una legge che li riconosca, in piena emergenza Covid sono nati progetti che incaricavano l’infermiere di comunità, con ambulatori dedicati e in connessione con i medici di medicina generale, a garantire una presa in carico continuativa e proattiva delle comunità di riferimento più remote. Questa figura ricorda in parte quella dell’infermiere di famiglia, prevista dal Patto per la Salute siglato a dicembre 2019 dal ministro della Salute Roberto Speranza con le Regioni, ma mai giunto in essere – causa arrivo del Covid.

Ancora, la pandemia ha dimostrato l’indubbia validità delle strutture e dei presidi territoriali, come le Case della comunità e gli Ospedali di comunità. Anche grazie a ciò, il Pnrr 2021, orientato a potenziare la medicina di prossimità, ha inserito tra i suoi obiettivi quello di implementare o potenziare entrambe le strutture, che tuttavia o non sono affatto presenti sul territorio nazionale o lo sono in modo molto disomogeneo. L’Emilia-Romagna è all’avanguardia sulle cosiddette «Case della Salute», strutture fisiche per l’assistenza primaria in cui opera un team multidisciplinare di medici di medicina generale, pediatri di libera scelta, specialisti, infermieri: ne conta 120.

E proprio in Emilia-Romagna nel 2021 la Commissione Sanità della Regione ha dato l’ok alla legge regionale – prima in Italia – per garantire il medico di base ai clochard, che nel resto del Paese continuano ad avere diritto al solo servizio di Pronto soccorso.

Importanti passi avanti, ma il Paese deve progredire ancora, soprattutto in termini di cabina di regia e linee guida omogenee, a livello di formazione dei medici di medicina generale e di integrazione dei diversi livelli di assistenza (primaria, (ultra-)specialistica e sociale) e a fronte di un’enorme disparità tra regioni. Per passare dalla teoria alla pratica bisognerà fare i conti con la disponibilità a investire su strutture, strumenti e formazione del personale e su una comunicazione fluida ospedale-territorio.

In gioco ci sono i benefici derivanti da un fecondo equilibrio tra un territorio che potrebbe gestire la prevenzione, l’assistenza primaria e delle cronicità e ospedali che potrebbero dedicarsi quasi esclusivamente ai casi acuti e a quelli che richiedono l’iperspecializzazione.