I giovani, soprattutto gli studenti, hanno riconquistato le prime pagine dei giornali. Grazie alle proteste e per via dei manganelli sulle loro teste. A Torino lo scorso 3 ottobre, a una manifestazione contro la visita di Giorgia Meloni. E, sempre a Torino, il 27 ottobre, con le cariche della polizia all’interno del Campus universitario Luigi Einaudi. L’intervento delle forze dell’ordine ha consentito agli studenti del Fuan e a un assessore regionale di Fratelli d’Italia di lasciare un’aula dove si svolgeva una conferenza sulla situazione in Armenia, sottraendosi così all’assedio dei collettivi antifascisti. Il 17 novembre c’è stata un’altra replica. Stesso copione ma su questioni diverse: la protesta stavolta era contro la riforma Valditara e a sostegno dei palestinesi. Il 5 dicembre di nuovo scontri al Campus Luigi Einaudi, in occasione di un volantinaggio del Fuan, contestato dagli studenti di sinistra e da esponenti del centro-sociale Askatasuna. Il 22 dicembre si cambia città, Roma, ma il risultato è lo stesso. Le cariche servono a impedire a un corteo non autorizzato di liceali di raggiungere Montecitorio. Il 23 febbraio è la volta di Pisa e Firenze durante le manifestazioni pro-Palestina. In questo caso, però, le immagini delle teste sanguinanti degli studenti e la sproporzione della reazione delle forze dell’ordine hanno provocato un coro di proteste a livello nazionale. È intervenuto anche il presidente della Repubblica, che in una nota ha affermato: “l'autorevolezza delle Forze dell'ordine non si misura sui manganelli ma sulla capacità di assicurare sicurezza tutelando, al contempo, la libertà di manifestare pubblicamente opinioni. Con i ragazzi i manganelli esprimono un fallimento”.
A far discutere, però, sono anche le modalità della protesta giovanile. In diverse occasioni, li abbiamo visti bloccare le strade, imbrattare monumenti e opere d’arte, ostacolare dibattiti e impedire a chi non la pensa come loro di parlare. È successo con David Parenzo alla Sapienza di Roma e con il direttore di “Repubblica” Maurizio Molinari alla Federico II di Napoli. Invitati a discutere, i giovani-contestatori si sottraggono al confronto, urlando ai loro interlocutori che non hanno diritto di parola. In alcune frange, poi, si assiste a un ritorno verso forme di estremismo e di intolleranza ideologica. In questi casi, a suscitare preoccupazione non sono tanto il conflitto e la contestazione ma il prevalere di “retoriche dell’intransigenza”, che vanno contrastate con decisione. Mattarella ha colto nuovamente con lucidità e saggezza il punto essenziale: “quel che vi è da bandire dalle Università è l’intolleranza” di “chi pretende di imporre le proprie idee impedendo che possa manifestarle chi la pensa diversamente”.
A suscitare preoccupazione, dunque, sono sia l’intolleranza di alcune manifestazioni di protesta, sia la risposta talvolta fuori misura della polizia. In realtà sarebbe bene che il fuoco dell’attenzione pubblica si spostasse anche sui giovani che sono scesi in piazza. Perché sono tornati a farsi vedere e sentire in forme eclatanti. Sui temi dell’antifascismo e dell’istruzione, così come su quelli della parità di genere e del cambiamento climatico. L’Italia, un Paese di anziani, ha bisogno di ascoltare la loro voce e di comprendere i motivi del loro disagio. Senza però alcuna indulgenza verso le forme violente di protesta.
Sono tornati a farsi vedere e sentire in forme eclatanti. Sui temi dell’antifascismo e dell’istruzione, così come su quelli della parità di genere e del cambiamento climatico
Per questo “il Mulino” ha dedicato l’ultimo numero monografico proprio a loro (La giovane Italia, n. 4/23).Talvolta le scienze sociali sanno cogliere bene e con tempestività la rilevanza di fenomeni sociali emergenti. E non c’è dubbio che oggi esista una questione generazionale. Perché essere giovani, da noi, è più difficile che in molti altri Paesi europei. Vero è che trovano protezione nelle loro famiglie. Per i figli, gli italiani fanno davvero di tutto. Compreso tenerli in casa fino a trent’anni. Ma questo dato indica piuttosto una disfunzione sociale, di cui sono stufi, per primi, i giovani stessi. Perché più che una condizione scelta è, spesso, una soluzione obbligata. E le famiglie, in un Paese diseguale come il nostro, non offrono certamente protezione a tutti nella stessa maniera.
Tutto ciò mette in luce una peculiare asimmetria, tutta italiana, nel riconoscimento sociale dei giovani: alla loro valorizzazione nella sfera privata, corrisponde una drammatica svalorizzazione nella dimensione pubblica. Una situazione che sta diventando sempre più intollerabile nel momento in cui cresce la loro distintività sociale e la loro voglia di protagonismo. Perché, sulla scena, si sta affacciando una nuova generazione. Diversa dalle precedenti sotto molti aspetti. Basti pensare ai suoi atteggiamenti verso il lavoro, i consumi, i social, la famiglia, la spiritualità, l’identità di genere, l’ambiente, la politica e molto altro ancora.
Sono i giovani della policrisi. Nati dopo il crollo del muro di Berlino e nel mezzo di una rivoluzione tecnologica che li ha dotati di nuovi strumenti di informazione, comunicazione e interazione. Hanno vissuto la loro adolescenza e prima maturità negli anni successivi alla Grande recessione del 2008 sperimentando, insieme al declino economico del nostro Paese, una precarizzazione del mercato del lavoro che ha interessato soprattutto le fasce più giovani e quelle più deboli. Inoltre, vivono una drastica accelerazione della crisi climatica e il ritorno della guerra e del rischio atomico nel continente europeo. C’è da stupirsi se si sentono “a rischio”? Il loro futuro è diventato radicalmente incerto. E questo tratto li caratterizza e li differenzia dalle generazioni nate nei decenni post-bellici del secolo scorso, che hanno vissuto la loro adolescenza in un clima di relativo ottimismo.
Seppure in forma embrionale, stiamo anche assistendo alla nascita di una nuova generazione politica. Che si interroga sul proprio avvenire, rivendicando una idea alternativa di futuro con particolare riferimento alla riqualificazione, all’equità e alla sostenibilità dello sviluppo. Per rendersene pienamente conto può essere di aiuto un sondaggio condotto dal Centro Luigi Bobbio dell’Università di Torino, che ha coinvolto 1600 cittadini italiani. Nel campione sono stati inclusi 600 giovani tra i 18 e i 34 anni. La prima metà sono stati intervistati nella primavera del 2023, l’altra tra dicembre e gennaio del 2024. Dai dati affiora una netta tendenza alla politicizzazione. Mediante uno stile peculiare, che mescola l’avversione verso le forme convenzionali di partecipazione politica (la partecipazione al voto, l’iscrizione ai partiti) e una spiccata disponibilità verso le modalità non convenzionali di mobilitazione pubblica.
Durante lo scorso anno, oltre la metà dei giovani ha preso parte con una certa regolarità a manifestazioni politiche e di protesta, iniziative per la pace, per l’ambiente e per problemi relativi alla propria città e altro ancora. Con tassi di partecipazione superiori a quelli delle altre classi di età. Nel confronto intergenerazionale, inoltre, colpisce la diversa collocazione sull’asse sinistra-destra. Per due aspetti distinti. Il primo è che quasi il 40% degli under-35 rifiuta di collocarsi sull’asse sinistra-destra: una percentuale che è di 10 punti superiore a quella presente nel resto del campione. Il secondo è che i giovani si stanno spostando a sinistra. Il 38% si colloca su posizioni di centrosinistra, mentre appena il 19% si identifica nel centrodestra. Nelle altre classi di età, invece, si osserva un maggiore equilibrio tra i due schieramenti.
Durante lo scorso anno, oltre la metà dei giovani ha preso parte con una certa regolarità a manifestazioni politiche e di protesta. Con tassi di partecipazione superiori a quelli delle altre classi di età
Un altro aspetto interessante riguarda il trend della mobilitazione giovanile. Nei due cicli di interviste si nota una chiara tendenza alla politicizzazione. Nella prima, a definirsi impegnati o comunque informati sulla politica erano circa il 58%. Nella seconda, la percentuale era salita al 73%. Va però anche aggiunto che questo tratto non accomuna tutti gli under-35. Infatti, tenendo conto di entrambe le rilevazioni, affiora anche un fenomeno opposto di alienazione dalla sfera politica (e spesso da ogni forma di partecipazione pubblica) che interessa oltre un terzo degli intervistati-giovani, perlopiù appartenenti ai ceti popolari e con bassi livelli di istruzione.
Questa mobilitazione giovanile rappresenta una opportunità. Perché per fare ripartire l’Italia dobbiamo saper valorizzare i giacimenti nascosti del nostro Paese: i giovani e le donne. Una sfida formidabile. Ma affinché questa opportunità non si trasformi in un'altra “notte della Repubblica”, dobbiamo fare molta attenzione alle scelte che faremo nei prossimi mesi. Se le istituzioni si chiuderanno a riccio, fornendo una risposta securitaria e repressiva alle domande dei giovani, allora entreremo in una spirale di violenza che il nostro Paese ha già conosciuto in passato. Ma lo stesso avvertimento vale sul fronte dei giovani. I social media facilitano processi di semplificazione e polarizzazione. Se la domanda di senso e di identità collettive espressa dalle loro proteste e l’insicurezza che fronteggiano come generazione li spingerà a cercare le scorciatoie semplificanti dell’intolleranza ideologica, allora l’esito sarà lo stesso. L'inverno del loro scontento si trasformerà nell’inverno della democrazia.
Un'altra strada è possibile. Varie indagini condotte in Europa mostrano che la maggioranza dei giovani esprime un robusto attaccamento alla democrazia e ai diritti civili, che si accompagna a una forte sensibilità verso le questioni della sostenibilità e della giustizia sociale. Le grandi sfide che attendono le democrazie europee hanno bisogno del loro contributo. Questa nuova generazione di italiani e di europei, che sta crescendo in un contesto più aperto e plurale sotto il profilo etnico-religioso e in una nuova epoca di politeismo valoriale (a là Weber), potrebbe diventare la protagonista per eccellenza di quello che Charles Sabel e William Simon hanno definito lo “sperimentalismo democratico”. Una modalità di governance delle democrazie che, pur accogliendo il conflitto, è basata su forme di apprendimento e di problem-solving pragmatiche e collaborative, aperte verso punti di vista molto diversi tra loro. In altre parole, un approccio al decision-making di società complesse, che risulta particolarmente adatto per questa epoca di radicale incertezza verso il futuro, che richiede soluzioni audaci e innovative. Proprio per questo dobbiamo chiedere ai giovani il coraggio di discutere, esponendosi al confronto delle idee. Perché né noi né loro possiamo permetterci la pigrizia del dogmatismo e del fanatismo ideologico. E perché oggi, ancor più che in passato, abbiamo tutti bisogno di una democrazia solida e inclusiva.
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