Il partito democratico è dominato da un establishment centrista che si rifà alla dinastia Clinton e condivide la «terza via» con cui Bill è arrivato alla presidenza nel 2003 come un New Democrat revisionista che ha rifondato il programma del partito: crescita privatistica con politiche di incentivazione basate sulla new economy, cioè la nuova divisione globale del lavoro, le produzioni di frontiera tecnologica e ambientale, una forza lavoro molto culturalizzata da politiche della scuola e del retraining; in più, un multiculturalismo inclusivo che sottolineava i diritti di donne e minoranze (il cosiddetto «politically correct»), ma senza vocazioni redistributive.
I costi dell’eredità storica democratica dimenticata sono emersi nelle recenti elezioni: ridimensionamento del ruolo pubblico e del patto sociale welfarista, allentamento del rapporto col sindacato e di una visione classista che vedeva i democratici rappresentanti del lavoro, e quindi minor favore tra gli operai, soprattutto bianchi. Su questa base il partito si è ricostruito dopo la potente sfida del repubblicanesimo reaganiano trionfante negli anni Ottanta. I successi della ricostruzione clintoniana hanno dato in mano ai democratici la Casa Bianca per sedici anni dal 1992 (ma con frequenti debolezze nel Congresso). Anche Obama è figlio di quella rifondazione.
Radicatosi in questo centrismo globalista, espansivo, business-friendly e multiculturalista, il partito ha trascurato i segni di disagio sociale, significati soprattutto dalle due sconfitte elettorali di Obama alle elezioni intermedie, che hanno ricostruito la maggioranza repubblicana nel Congresso e in molti governi statali. La vittoria di Trump è quindi il completarsi della riconquista repubblicana del potere con la presa della Casa Bianca e della Corte Suprema.
Ha prevalso tra i democratici la mediazione interna rispetto alle antenne sulla società. Il trionfo dinastico del partito clintoniano doveva realizzarsi con la candidatura di Hillary nel 2008, ma «l’uomo nuovo» Obama le sbarrò la strada. Malgrado le incomprensioni, entrambi avevano interesse ad accordarsi: Obama avrebbe avuto gravi difficoltà con il partito clintoniano, di cui la coppia era garante, a condizione che lei fosse la candidata alla scadenza di lui. Ne risultò un «patto d’acciaio» che stabilì una successione predestinata poco adattabile a fenomeni e personaggi nuovi.
Di conseguenza nelle primarie democratiche del 2016 Hillary non ha dovuto affrontare alcuna seria competizione interna, ma solo quella di un outsider di inatteso successo, Bernie Sanders, che superò anche con le risorse tipiche dell’establishment: i 712 delegati di diritto alla convenzione nazionale, tutti per lei, e la scandalosa manipolazione a suo favore delle regole di partito.
La compresenza delle candidature di Trump e Sanders – radicalmente diverse, ma che esprimevano entrambe una protesta contro l’iniquità economica e l’élite finanziaria e politica del Paese – indicò che nel partito democratico era cresciuto un «problema bianco» di prima grandezza. Negli anni Novanta nell’entourage di Bill emerse un potente partito, che constatava che l’espansione economica alzava sì i profitti ma né salari né posti di lavoro, e proponeva una campagna anti-Wall Street che recuperasse il rapporto con colletti blu e bianchi. Ma Clinton vi vide un ritorno passatista e scelse invece di essere uno small government, business-friendly Democrat.
Tuttavia il «problema bianco» non si limitava a una «classe operaia» di «nazionalisti bianchi» marginalizzata dall’espansione clintoniana e non riscattata dalla ripresa obamiana dalla crisi del 2008. Sanders mobilitava un elettorato a sua volta prevalentemente bianco, giovanile e di ceto medio colto. Era certo diverso dagli entusiasti trumpiani, ma essi condividevano la critica all’establishment politico e chiedevano giustizia economica. Alle primarie Sanders ha perso perchè molto debole tra donne e minoranze che Hillary ha conquistato grazie al principio di inclusività multiculturale, che divenne però sempre più diverso da quello di equità economica. Venne invece a identificarsi nel discorso pubblico democratico con donne ed etnici non-bianchi, mentre i bianchi, soprattutto i maschi bianchi, venivano ignorati come un soggetto magmatico senza voce pubblica. Un soggetto implicitamente colpevole delle molte storture della vita americana che i democratici avevano dovuto raddrizzare.
Nella campagna elettorale il non detto divenne esplicito: chi erano i «deplorevoli» votanti di Trump citati infelicissimamente da Hillary, se non i maschi bianchi blue e white collars che a quel punto si sentivano marginalizzati nel reddito e nella appartenenza?
Hillary restò un candidato dell’establishment moderato, poco entusiasmante e piena di scheletri nell’armadio. Scelse come vicepresidente il senatore Tim Kaine, molto centrista e senza una personalità spiccata, a preferenza della senatrice progressista Elisabeth Warren, critica di Wall Street, molto popolare, indicata inizialmente da un movimento di base democratica come l’alternativa a Hillary. A quel punto le sue sponsorship, soprattutto quella del potente ex sindaco di New York ed ex repubblicano Michael Bloomberg, e le lotte nel partito dell’elefante sul nome di Trump, facevano pensare che ci fosse un bel pacchetto disponibile di voti repubblicani, a preferenza dei giovani di Sanders. I successivi tentativi di Hillary di spostamenti a sinistra sul piano programmatico restarono sempre poco credibili.
Chi scrive condivide l’opinione ampiamente circolante che le elezioni non le ha vinte Trump, ma le ha perse Hillary e che i democratici, con un candidato e un programma migliore, avrebbero dovuto ringraziare il cielo di trovarsi davanti un oppositore così balordo, che certo identificava un tema profondo ma settoriale della società americana e avrebbe potuto essere battuto con largo margine. Il partito è sotto shock, ha una direzione compromessa nella catastrofe, sono cominciate le lotte tra centro e sinistra per le nuove cariche dirigenti, e la linea che sembra oggi emergere è: difesa senza compromessi dei diritti multiculturali ma disponibilità a collaborare su misure economiche che aiutino la classe media e medio-bassa.
Ma la vera domanda che aspetta il partito è la seguente: è ancora percorribile la visione d’America elaborata dal clintonismo, che insieme ai suoi slanci ha anche creato grandi diseguaglianze e squilibri? Ed è reiterabile quel discorso del politically correct che ha giustamente elevato i diritti di donne e minoranze, ma ha diffuso in altri segmenti della popolazione la sensazione di abbandonare a loro danno un concetto universalista di interesse generale e di American people? Questo sembra essere il vero, difficile punto interrogativo.
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