Questo articolo fa parte dello speciale La guerra in Ucraina
Vladimir Putin è uno zar che vede avvicinarsi la fine del suo regno. Pensa probabilmente di aver fatto molto, ma non ancora abbastanza, per restituire alla Russia la grandezza e il prestigio perduti dopo il 1991; non ha un erede, e teme che nessuno saprà portare a compimento la sua opera. Come molti autocrati, anche Putin ha finito per circondarsi di persone mediocri, capaci soltanto di assecondare i suoi disegni politici e militari, senza mai contraddirlo sui punti essenziali; ma soprattutto ha finito per credere alla sua stessa propaganda, che è uno degli errori più gravi che un uomo di Stato possa commettere.
Pensavo fosse più prudente e capace; come me molti altri, in Occidente. Fino al 23 febbraio ero convinto stesse giocando la sua partita con grande abilità, ottenendo dei risultati strategicamente rilevanti senza sparare un colpo e senza rischiare nulla. Ora siamo di fronte a una guerra inimmaginabile, nella nostra epoca e nel nostro continente, le cui possibili conseguenze sull’ordine politico-militare del XXI secolo in buona parte ci sfuggono. Come avevo previsto – questo almeno sì! – l’offensiva dell’esercito russo, qualora fosse davvero scattata, non si sarebbe rivelata una «passeggiata militare». Proviamo a capire quali possano essere i suoi obiettivi a breve e lungo termine.
La campagna è iniziata come un’operazione shock and awe («colpisci e terrorizza»): bombardamenti contro installazioni militari condotti usando missili da crociera e balistici; conquista dello spazio aereo; inserzione di squadre di truppe speciali e unità eliportate per assumere il controllo di aeroporti e altri obiettivi strategici; penetrazione più «convenzionale» di gruppi di combattimento tattici motorizzati per chiudere la morsa attorno alla capitale. Nei piani e nelle speranze di Putin tale offensiva – che ha colto di sorpresa non soltanto gli analisti occidentali, ma il popolo e i militari ucraini – avrebbe dovuto condurre nel giro di 48 ore a due risultati politicamente decisivi: la fuga del presidente Zelensky dal Paese, o almeno dalla capitale, e il conseguente rapido sfaldarsi dell’esercito regolare ucraino prima che la popolazione avesse la possibilità di organizzare la resistenza armata. Nessuna delle due cose è accaduta. Zelensky è diventato un eroe nazionale, sfidando apertamente i russi che gli davano la caccia, e i reparti ucraini hanno combattuto e combattono tenacemente. Il primo sintomo di apprensione, da parte del Cremlino, è stato l’appello ai militari di Kiev (venerdì 25 febbraio) perché prendessero il potere: prematuro e ignorato, ha reso evidente il fallimento del «piano A» russo, ovvero di quella che lo stesso Putin aveva definito un’operazione speciale, rapida e nelle sue intenzioni quasi indolore, destinata a rovesciare il governo ucraino.
Chi inizia una guerra lo fa per ristabilire la pace in una forma che ritiene più conveniente ai propri interessi. La pace che Putin immagina di poter imporre è dunque l’obiettivo a lungo termine dell’offensiva iniziata il 24 febbraio
L’entusiasmo che si è presto diffuso in Occidente per le difficoltà incontrate dagli invasori si è rivelato tuttavia prematuro, almeno dal punto di vista militare. I russi avevano ovviamente un «piano B», più convenzionale, e lo stanno tuttora mettendo in atto con metodica efficacia. Per il modo in cui si sta disegnando sul terreno l’offensiva, i suoi obiettivi immediati sembrano essere ormai chiari: 1. circondare e stringere d’assedio Kiev; 2. occupare l’intera fascia costiera del mar Nero e del mar d’Azov; 3. avanzare da Nord e da Sud lungo il corso del Dnepr, circondando il grosso delle forze ucraine ancora impegnate nell’Est del Paese. Questo potrebbe essere l’end state strategico dell’offensiva, sulla base del quale Putin sarà verosimilmente disposto a intavolare veri negoziati di pace.
Chi inizia una guerra lo fa per ristabilire la pace in una forma che ritiene più conveniente ai propri interessi. La pace che Putin immagina di poter imporre è dunque l’obiettivo a lungo termine dell’offensiva iniziata il 24 febbraio. Non l’occupazione dell’intero Paese, probabilmente – che comporterebbe un impegno militare troppo gravoso persino per la Russia – ma la creazione di una sorta di «Ucraina di Vichy», simile all’assetto imposto alla Francia sconfitta dai tedeschi nel 1940. Allora la Germania decise di mantenere sotto il proprio diretto controllo la capitale e l’intera costa atlantica, di ovvia importanza strategica; adesso Putin potrebbe creare una sorta di protettorato russo (non importa se formalmente indipendente o soltanto autonomo) che vada da Odessa a Mariupol, isolando l’Ucraina dal mare, e contemporaneamente favorire a Kiev la formazione di un governo amico. Trovare un personaggio adatto per guidarlo potrebbe non essere facile, ma alla fine salta sempre fuori qualcuno che si presta al gioco degli invasori. Si possono comunque prevedere fin d’ora due ostacoli: in primo luogo, la popolazione non sembra disposta ad accettare senza resistere un regime imposto da Mosca, quali che siano gli accorgimenti messi in atto per renderlo presentabile; in secondo luogo, l’Ucraina «collaborazionista» difficilmente potrebbe ottenere il riconoscimento della comunità internazionale, e dunque resterebbe tagliata fuori dai flussi finanziari e commerciali e finirebbe per dover essere mantenuta in vita dalla Russia.
Ormai Putin si è messo in una situazione che ha un’unica via di uscita: un ritorno alle posizioni di partenza, rappresenterebbe una sconfitta dalle conseguenze per lui imprevedibili
Vista la determinazione nel proseguire l’offensiva, difficile che Putin possa accontentarsi di qualcosa di meno una volta raggiunti gli obiettivi militari descritti. Ormai si è messo in una situazione che ha un’unica via di uscita: un ritorno alle posizioni di partenza, rappresenterebbe una sconfitta dalle conseguenze per lui imprevedibili. Ma il successo che intravede al termine delle operazioni militari non sarà la fine della storia. Anche nella migliore delle ipotesi per la Russia, ovvero che il governo amico insediato a Kiev non venga rovesciato nel giro di pochi mesi da una rivolta simile a quella del 2014, per mantenerlo in grado di resistere all’opposizione popolare Mosca si troverebbe nella situazione di dover spendere blood and treasure in quantità difficilmente sostenibili. Putin lo ha previsto? Oppure ha sottovalutato questo aspetto, e ha finito per credere alla propria visione alterata della storia, convincendosi che gli ucraini non possiedano un’anima politica, un orgoglio, una volontà di indipendenza tanto forti da sopportare gli enormi sacrifici sempre imposti da una lotta armata?
La nuova guerra europea rischia di restare per anni una ferita aperta: che non soltanto dissanguerà la Russia, ma determinerà cambiamenti profondi nell’assetto geopolitico, economico e militare del continente e del mondo intero
Difficile dirlo. Ma di una cosa possiamo essere certi: la resistenza ucraina, in un arco di tempo sufficiente, ha ottime possibilità di abbattere l’orso russo, così come è accaduto negli anni Ottanta del XX secolo in Afghanistan. Per avere successo, la guerriglia ha bisogno di due condizioni fondamentali, ovvero un ampio orizzonte geografico e un solido appoggio esterno. Il primo non manca: l’Ucraina è grande più di 600.000 km 2, due volte l’Italia, e per controllarla in maniera efficace sarebbero necessarie centinaia di migliaia di uomini; ancora più decisiva, in prospettiva, è la certezza di poter contare sul sostegno economico e militare dell’Occidente. I mujahidin afgani riuscirono a sconfiggere i sovietici grazie all’esistenza di una estesa frontiera con il Pakistan, Paese amico, attraverso la quale potevano ricevere ogni tipo di aiuti, e oltre la quale potevano ripiegare indisturbati in caso di difficoltà. L’Ucraina è in una situazione analoga: confina infatti con quattro Paesi della Nato (Polonia, Slovacchia, Ungheria, Romania) che sono già diventati basi logistiche di smistamento di armi e materiali, e ultima stazione di transito per i volontari che si recano a combattere contro i russi.
Tutti gli ucraini con cui ho parlato, o che ho avuto occasione di ascoltare, si sono dichiarati determinati a combattere per la libertà della loro patria. La guerra semplifica brutalmente la percezione del mondo: anche chi non apprezzava il governo di Zelensky, o condivideva - almeno in parte - le apprensioni di Mosca per l’equilibrio in Europa, mostrandosi contrario alla richiesta di adesione alla Nato da parte di Kiev, è oggi convinto di dover prendere le armi. L’impressione è che Vladimir Putin abbia commesso un tragico sbaglio, non prendendo in considerazione la possibilità di un prolungamento del conflitto anche dopo un’eventuale pace «vittoriosa». La nuova guerra europea rischia di restare per anni una ferita aperta: che non soltanto dissanguerà la Russia, ma determinerà cambiamenti profondi nell’assetto geopolitico, economico e militare del continente e del mondo intero.
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