Mancano pochi giorni alla prima edizione del mese dell’educazione finanziaria, promossa dal Comitato nazionale costituito l’anno scorso presso il ministero dell’Economia e delle finanze. L’Italia è tra gli ultimi Paesi nel confronto internazionale quanto a livello di educazione finanziaria, se si considerano le percentuali di risposte corrette a domande su aspetti elementari su criteri per l’investimento dei propri risparmi. La domanda che ottiene la risposta corretta in proporzione minore è quella sulla diversificazione del rischio, cioè se per ridurre il rischio di perdere denaro sia preferibile investire nei titoli di una o di più società (secondo la formulazione in Banca d’Italia 2012, pp. 25-26, 105). La risposta corretta è che è preferibile diversificare su titoli di più emittenti, perché è possibile compensare perdite da una parte con guadagni da un’altra se esposti a rischi diversi (per settore, paese, valuta), ovvero “non mettere tutte le uova in un unico paniere”.
Come valuterebbe un cittadino italiano con conoscenze finanziarie adeguate la proposta (a uno stadio avanzata di elaborazione) di un nuovo strumento d’investimento, i Cir (Conti individuali di risparmio), con l’obiettivo di sottrarre l’Italia alla “dittatura dello spread”?
Lo spread è il differenziale di rendimento richiesto dagli investitori su titoli pubblici analoghi di un emittente sovrano ritenuto più rischioso (Italia, con un rapporto debito pubblico/Pil di oltre il 130%) rispetto a uno ritenuto privo di rischio (Germania, con un rapporto del 62%). La dittatura nascerebbe dal vincolo che uno spread alto e crescente, con conseguenti maggiori interessi da pagare sul nuovo debito, rappresenta per misure che aumentino il disavanzo pubblico oltre gli impegni assunti in sede europea (a voler trascurare l’art. 81 Cost., come riformato nel 2012). La rilevanza del vincolo per le decisioni del governo sarebbe diminuita se si “nazionalizzasse” anche la quota (28%, negli ultimi dati del 2018, in flessione dal 35% di fine 2017) di debito pubblico detenuto da investitori esteri. A questo obiettivo servirebbero i Cir, perché le famiglie sarebbero indotte a investire in titoli pubblici da agevolazioni fiscali che premiano il mantenimento nel portafoglio sino alla scadenza, a prescindere dalle oscillazioni delle quotazioni. La denominazione del nuovo strumento evoca quella di un altro, i Pir (Piani individuali di risparmio), introdotto dal 2017, anch’esso caratterizzato da agevolazioni fiscali per chi mantenga per almeno cinque anni titoli di società private.
Sono almeno quattro gli aspetti per cui la proposta di introduzione dei Cir confligge con il principio della diversificazione del rischio in presenza di libertà nei movimenti di capitali.
Primo le famiglie italiane dovrebbero diversificare il rischio di perdite sul reddito e sulla ricchezza investendo (legalmente) in attività estere, visto che dall’andamento dell’economia del Paese dipendono il reddito da lavoro e da pensione pubblica e il rendimento dei titoli di società italiane e pubblici – posseduti direttamente (117 miliardi di euro, meno del 6%, su dati fine 2017) o indirettamente (17%, tramite fondi pensione e polizze assicurative). Secondo, nuovi incentivi fiscali per investimenti in titoli pubblici ridurrebbero la convenienza delle alternative, tra cui i titoli delle imprese, che pur si vorrebbe rafforzare patrimonialmente e rendere meno dipendenti dai prestiti bancari. In effetti, questi erano gli obiettivi dei Pir, che avrebbero dovuto canalizzare risparmi delle famiglie in particolare verso le piccole e medie imprese (potenzialmente beneficiarie di poco più di un quinto dei fondi). I dati a metà 2018 (quasi 15 miliardi di raccolta) mostrano che l’obiettivo è rimasto un auspicio, visto che il finanziamento diretto alle piccole e medie imprese per accrescerne i mezzi propri si è scontrato con la scarsità di domanda di finanziamenti da parte di imprese che non sono disposte a quotarsi. Tuttavia, anziché proporre misure per rimuovere gli ostacoli emersi nel caso dei Pir, si propongono benefici fiscali per i Cir che renderebbero ancor meno conveniente investire in imprese. Inoltre, dirottare risparmi delle famiglie verso i Cir vorrebbe anche dire ridurre la raccolta stabile dei depositi per le banche, con contraccolpi negativi sui prestiti alle imprese e alle famiglie e sulla stessa domanda di titoli pubblici da parte delle banche.
Terzo, perché si possa realizzare una “nazionalizzazione” del debito pubblico, dovrebbe aumentare non solo la quota del risparmio familiare investita in titoli pubblici ma anche e soprattutto l’ammontare assoluto del risparmio. Ciò a maggior ragione visto che dal 2019 la Bce non aumenterà ulteriormente i titoli pubblici in portafoglio, reinvestendo solo il capitale per quelli che giungono a scadenza. L’evidenza dei dati non fornisce elementi a conforto della plausibilità di un congruo aumento del risparmio delle famiglie. Infatti, il Tesoro deve emettere ogni anno titoli per 400 miliardi di euro solo per il rinnovo dei titoli in scadenza. Il risparmio lordo delle famiglie consumatrici e produttrici, i cui impieghi comprendono investimenti fissi, tra cui in abitazioni, e finanziari (tra cui depositi, titoli pubblici e privati, quote di fondi pensioni e polizze assicurative), è stato invece di 114 miliardi di euro nel 2017. Inoltre, la proporzione del reddito familiare risparmiata è da almeno vent’anni in caduta sino ad essere tra le più basse tra i Paesi europei a causa della dinamica stagnante del reddito e, complice la maggiore diseguaglianza, della quota ridotta di famiglie in grado di risparmiare. Per fare un esempio concreto di cosa quest’ultimo fattore implichi, la Covip ha stimato che oltre un quinto degli iscritti ai fondi pensione aperti e ai Piani individuali pensionistici, non è stato in grado nel 2017 neanche di versare i contributi pur agevolati fiscalmente. Infine proporre nuove agevolazioni fiscali per incentivare l’investimento nei Cir non sembra coerente con le proposte di sfoltire quelle esistenti per trovare risorse che consentano di coprire minori introiti/maggiori spese derivanti dagli impegni nel “contratto di governo” della contemporanea introduzione di flat tax, reddito e pensioni di cittadinanza e modifica del regime pensionistico.
I risparmiatori, italiani ed esteri, con conoscenze finanziarie di base, in presenza di libertà nei movimenti di capitali, diversificano i propri investimenti stimando i rischi cui sono esposti i diversi emittenti e valutandone la coerenza, e quindi la credibilità, delle promesse sui rendimenti. Difficilmente, perciò, un nuovo strumento d’investimento come i Cir appare congruo con l’obiettivo di nazionalizzare il debito pubblico per “sottrarre l’Italia alla dittatura dello spread”.
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