Possiamo parlare di “innovazione sociale” in molti sensi. In ambito umanistico, almeno dal mio punto di vista, l’innovazione (uso il termine “innovazione” nel senso “disruptive” invalso in ambito tecnologico) rimanda a trasformazioni preculturali in atto e si incarica di “tradurre” sul piano scientifico un intero repertorio di infrazioni sociali e culturali. Non è universale, anche se può essere agevolmente assimilata e modificata. Prospera in piccole comunità di ricerca determinate a ottenere maggiore riconoscimento politico e istituzionale; e in luoghi di volta in volta specifici. È inestricabilmente connessa al piano individuale dell’esistenza e può non rendere conto a (o trarre ingenti finanziamenti da) estese burocrazie. Attitudini e punti di vista protestatari si spostano immaginativamente su piani teorici, filologici e storiografici e si associano a un’illuminante cascata di nuove metafore. Perché ciò sia possibile occorre tuttavia che il mercato dei media, dell’editoria e delle cattedre universitarie siano aperti e adeguatamente concorrenziali.
Introdotta di recente nella ricerca motivazionale, la distinzione tra “performance innovativa” e “performance convenzionale” si rivela utile anche dal nostro punto di vista. Se la prima trae stimolo e vantaggio dall’attesa di remunerazione materiale o immateriale, le motivazioni della seconda si affievoliscono se remunerate regolarmente. Ne consegue che politiche della ricerca unilateralmente orientate a tagli e restrizioni non sono affatto neutre o impersonali. Colpiscono i ricercatori più innovativi (nel senso che ne disperdono le motivazioni) mentre risultano stabilmente modellate sul ricercatore poco produttivo o improduttivo (che si propongono di sanzionare).
Introdotta di recente nella ricerca motivazionale, la distinzione tra “performance innovativa” e “performance convenzionale” si rivela utile anche dal nostro punto di vista
Non è prevedibile che l’interesse sociale o il consenso istituzionale per le Humanities cresca nell’immediato futuro, al contrario: il settore tecnologico continuerà a offrire allettanti e indiscutibili opportunità professionali alle giovani generazioni. Queste sembrano dibattersi tra istituzioni educative “vecchie” e “nuove” non di rado conflittuali. Le istituzioni dedicate allo studio dei “classici” e al potenziamento della memoria si sforzano di ingaggiarli nell’apprendimento di lingue, tradizioni e vicende avvertite come sempre più remote, fatalmente disallineate dal corso della storia. Le “nuove” agenzie formative, riconducibili al mondo dell’intrattenimento di massa e dell’innovazione digitale, li persuadono ogni giorno di più che l’eccesso di memoria è un fardello inutile e retrivo nel contesto di un mondo in vertiginosa trasformazione. Le retoriche identitarie non funzionano (oltre a essere storicamente e demograficamente inattendibili): hanno contro l’annientamento delle tradizionali gerarchie culturali nel flusso indifferenziato dei consumi e l’enorme domanda di competenze tecnologiche, post- o antistoriche.
Tutte le culture nazionali sono oggi diasporiche, non importa se apparteniamo a comunità migranti o comunità stanziali. Lo sono per effetto di impressionanti trasformazioni demografiche, economiche, sociali e per il mutamento delle condizioni di apprendimento promosse dalla cultura digitale. Abbiamo meno tempo per leggere e studiare, meno tempo per memorizzare. Al tempo stesso siamo connessi globalmente e incalzati da flussi di informazione in entrata incomparabilmente più massicci che in ogni altra epoca. Abbiamo bisogno di semplificare per elaborare. Per farlo dobbiamo disporre di saldi criteri attorno a cosa (e come) dimenticare.
Tutte le culture nazionali sono oggi diasporiche, non importa se apparteniamo a comunità migranti o comunità stanziali
Il ricorso a punti di vista burocratici o all’autodifesa corporativa non è di alcun aiuto. Inoltre faremmo bene a evitare gerghi e oscurità innecessarie. «Il momento storico che noi viviamo» – scriveva Goffredo Parise nel 1974 sul «Corriere della Sera» – «il trapasso cioè da un’Italia sottoposta a un potere oligarchico a un’Italia democratica ha bisogno non di uomini (e di lettori) “politici”, furbi, snob, ma di persone semplici che scrivono semplicemente stabilendo così con molta semplicità un piccolo esercizio di democrazia».
Le parole di Parise conservano tutta la loro attualità. Viviamo, certo non solo in Italia, un momento di grande inquietudine. Un’epoca sembra essersi conclusa e le sue dogmatiche parole d’ordine hanno perduto di autorità. Tuttavia non discerniamo ancora chiaramente quale potranno essere gli assetti sociali e istituzionali futuri. Le classi medie sono ovunque in difficoltà in Occidente, e la sfera dei diritti si va erodendo sotto la pressione di formidabili disuguaglianze economiche, sociali e cognitive. Questa transizione si concluderà con il rafforzamento della democrazia? Oppure con il dominio di isolate oligarchie politico-economico-finanziarie? Non ne ho la minima idea.
So però bene a cosa un’istruzione prevalentemente (o esclusivamente) tecnica non predispone. Qual è il rapporto tra indagine conoscitiva e sfera dei diritti? Tra competenze disciplinari e giustizia? Queste sono le prime domande cui chi fa ricerca è a mio avviso chiamato a rispondere.
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