«La Storia è finalmente dalla parte di Hillary?» si chiedeva uno dei maggiori commentatori del «Washington Post», Eugene Robinson, nell’aprile dello scorso anno quando l’ex first lady annunciò la sua decisione di correre per la nomination democratica alla Casa Bianca. Più di un anno dopo, la risposta potrebbe essere «sì» e «no».

«Sì», perché dopo l’ultima tornata delle primarie e in particolare dopo la vittoria senza se e senza ma di Hillary Clinton in California, la strada per la nomination si può considerare spianata. Anche se Bernie Sanders non ha ancora ammesso la sconfitta, appare chiaro che ormai ha perso quello che gli americani definiscono il «momentum», quel fuggevole e tuttavia decisivo attimo che produce consenso, aggregazione, visibilità, leadership. I numeri sono numeri e non c’è dubbio, come sostiene l’analista Nate Silver, che Hillary ha ottenuto più voti di Sanders e che se il partito democratico avesse adottato le regole di quello repubblicano, la partita sarebbe già chiusa da un pezzo. A Sanders non rimane (ma è compito per nulla residuale) che contrattare il suo incredibile patrimonio politico, fatto di fasce di elettorato giovanile, di donne e attivisti dei movimenti che si battono a favore di politiche di riequilibrio economico e sociale, non facilmente eludibili. Ha capitalizzato non solo un generico sentimento anti-establishment o le delusioni nei riguardi delle scelte ritenute, tutto sommato, centriste della presidenza Obama. Da «nuovo» democratico quale è, egli ha soprattutto valorizzato le speranze e gli obiettivi di quella parte del partito più attenta ai movimenti sociali. Infatti, all’indomani del 1968 – un’era geologica fa per certi versi, appena ieri per altri –, quando la sconfitta ad opera di Nixon produsse un vero e proprio terremoto politico, l’ala più progressista e liberal del partito democratico si è dovuta confrontare con quella più moderata e centrista. A partire dagli anni Novanta, quest’ultima è stata incarnata da Bill Clinton, la cui politica è stata apparentemente più liberal per quel che riguarda i diritti, ma moderata se non conservatrice in tema di politiche economiche e sociali. Decisioni, come le leggi anti-crimine che hanno favorito l’inasprimento delle pene (le famigerate three-strikes law, al terzo reato, il massimo della pena), o lo smantellamento del sistema di welfare, hanno contribuito al peggioramento delle condizioni di vita proprio di quell’elettorato afro-americano che sembra solidale con i Clinton.

Ed è proprio qui che entrano in gioco gli argomenti che fanno propendere per il «no»: la Storia non è dalla parte di Hillary, se si vede nella sua candidatura una scelta trasformativa e di svolta simbolica come quella che riguardò Obama nel 2008. Certo, se la convention democratica confermerà la nomination, per la prima volta una donna può seriamente competere per «the big prize», il ruolo più ambito della politica americana, infrangendo quel soffitto di cristallo, per ripetere una stucchevole metafora, che nel 2008 era riuscita solo a incrinare, seppure con «18 milioni di crepe», per riprendere le sue parole. Hillary ha fatto tesoro della sconfitta di otto anni fa. Allora, mal consigliata, non utilizzò la carta del genere se non quando ormai era troppo tardi. Probabilmente avendo in mente una famosa battuta di Finley Peter Dunne, che nell’Ottocento scriveva che la politica era una faccenda seria e bambini, donne e proibizionisti dovevano starne alla larga, tutta la sua strategia si era concentrata sull’utilizzo di un linguaggio centrato sulle virtù virili del comando proprie di un commander in chief.

Non così nella campagna in corso. Lo stesso discorso tenuto a Brooklyn qualche giorno fa, celebrando l’obiettivo della nomination, ne è un esempio, tutto giocato sulla rivendicazione del patrimonio di lotte e di battaglie condotte dalle donne americane dal lontano 1848. Nel video relativo, vi è un uso accorto delle immagini tutte tese a mettere in luce la «diversity» – dalle femministe «storiche» alle donne immigrate, dalle prime giudici, deputate e senatrici alle studentesse, alle afroamericane e latinos, alle lesbiche e trans gender – che deve cercare di smentire l’idea di una Hillary Clinton simbolo di un femminismo bianco, tipico di donne di classe media o di professioniste, le uniche che sono sensibili alla metafora del soffitto di cristallo e al problema dell’accesso al potere. Un «neoliberal kind of femminism», come ha sostenuto Nancy Fraser, proprio di donne privilegiate, che si concentra sul problema del riconoscimento e lascia ai margini quello della redistribuzione e della rappresentanza. 

E tuttavia, nonostante i suoi sforzi, anche adesso, in un momento in cui secondo un recente sondaggio della Cnn l’idea di una donna presidente è accettata dall’80% degli intervistati, questa storica conquista da «eretica» è divenuta quasi «irrilevante», e non suscita più gli entusiasmi e le speranze che invece accompagnarono la nomination del primo afro-americano.

D’altronde, Hillary Clinton non è proprio la candidata ideale per sollevare ondate di emotività, per la sua storia personale, prima ancora che politica, all’insegna di un progetto di costruzione di una «famiglia politica», di una lotta per il potere che, certo, ha anche utilizzato il linguaggio dei diritti delle donne per affermarsi. Ma non siamo agli inizi del Novecento, quando il suo modello, Eleanor Roosevelt, senza perdere di vista le questioni di giustizia sociale e di giustizia razziale, invitava le donne a imparare il gioco del potere e a costruire una vera e propria machinery politica femminile per superare le barriere poste dalle smoking room maschili. Non esiste più l’idea di una «sorellanza» che tutte accomuna e nei confronti della quale si invoca solidarietà. Le differenze, pure fra donne, esistono e sono forti così come le asimmetrie di potere, in ragione della classe, della razza, dell’etnia e anche delle differenze generazionali.

Forse conviene soffermarsi su Hillary Clinton non come emblema di un femminismo che meriterebbe ben altre combattenti, ma come esponente di un partito democratico che deve dimostrare di essere capace di unirsi e di intercettare i segnali provenienti dall’inquieta società americana, reagendo con durezza ed efficacia alle istanze di un Trump che sollecita le pulsioni peggiori di un elettorato insofferente. A suo favore, di nuovo, sembrano esserci i numeri: le elezioni si giocheranno fondamentalmente su undici Stati (tra questi California, Florida, Ohio, North Carolina, Pennsylvania, Virginia, Wisconsin, per citare quelli che hanno più voti elettorali). I risultati delle elezioni del 2008 e del 2012 sono confortanti per i democratici, così come sono positivi i trend demografici secondo i quali in questi Stati si registrano aumenti significativi di una popolazione «non-white» che tradizionalmente vota democratico. D’altronde, dati più ponderati dimostrano che i ceti più poveri (quelli che hanno un reddito inferiore ai 30.000 dollari) hanno votato per Clinton e quindi né per Sanders, né tantomeno per Trump, nonostante un certo tipo di rappresentazione della candidatura del magnate americano come espressione della ribellione «working class» bianca nei riguardi delle elites repubblicane.

Hillary deve dimostrare di essere capace di fare uno sforzo di immaginazione, visto che non è in grado di offrire una visione «trasformativa», e per fare questo deve essere meno «clintoniana», meno legata a una stagione politica che appartiene al passato e le cui ricette hanno dimostrato di avere più ombre che luci. A Hillary non sembra appartenere quella retorica populista padroneggiata da Bill, Obama e dallo stesso Sanders, ma di fronte alla «incivility» di Trump, forse una maggiore attenzione non solo ai diritti individuali e alla giustizia sociale, non solo alla competenza, ma all’obiettivo di sconfiggere la «politica della paura», per riprendere Roberto Escobar, potrebbe permetterle di diventare la quarantacinquesima presidente degli Stati Uniti d’America che, incidentalmente, sarebbe anche la prima donna a ricoprire tale ruolo.