Gli Stati Uniti, quelli liberal e di sinistra e quelli conservatori, sono con il fiato sospeso in attesa di sapere se il giudice Kavanaugh verrà o meno confermato alla Corte Suprema. La sua strada appariva essere fino a quando Christine Blasey Ford, professoressa universitaria, non lo ha accusato di avere tentato di stuprarla assieme a un amico ai tempi del college. Vedremo che ne sarà di questa vicenda cruciale per la società americana (la Corte prende decisioni importanti sulla vita delle persone), vedremo se e come Ford sarà ascoltata in Senato. Ma notiamo che il presidente Trump ha detto che non ce lo vede, Kanavaugh, a fare una cosa simile. Come se le violenze nei college, proprio ai party del sabato sera, non fossero un tema serio e ricorrente. E come se mille uomini di successo non avessero passato le feste dei primi anni del college a ubriacarsi e poi fare cose di cui si sarebbero pentiti o vergognati.
Questo è l’anno delle donne in politica e una delle ragioni è la vittoria di Donald “grab ‘em by the pussy” Trump. La nomina di Kanavaugh e la probabile nascita di una maggioranza conservatrice all’Alta Corte, poi, mette potenzialmente a rischio molte conquiste delle donne. Questo è l’anno di #MeToo.
Arriviamo al punto: il direttore della “New York Review of Books”, Ian Buruma, giornalista olandese, cresciuto in Giappone, autore di libri mirabolanti, si è sentito in obbligo di dimettersi per aver pubblicato un lungo articolo di Jian Ghomeshi, Dj radiofonico canadese caduto in disgrazia dopo che 20 donne lo avevano accusato di averle picchiate, colpite, messo loro le mani alla gola contro la loro volontà, durante il sesso. Ghomeshi è stato licenziato dalla radio canadese per cui lavorava ma assolto dalle accuse di chi lo ha portato in tribunale. Nel suo articolo dal titolo Reflections from an hashtag (che tradurrei Riflessi da un hashtag/riflessioni su un hashtag), il Dj caduto in disgrazia non riesce ad andare oltre una sorta di sentirsi colpevole e ammettere di aver sbagliato qualcosa. Ma resta vago e molto renitente sul cosa lo abbia spinto. E non sembra aver compreso bene quanta sofferenza, traumi, fatica i suoi gesti possono aver causato nelle donne che gli è piaciuto picchiare. Non solo, Gomeshi spiega anche che alcuni dei racconti non sono accurati. Alcuni sì, altri no forse, non fa differenza.
Il saggio di Ghomeshi non è il primo uscito di una figura pubblica la cui notorietà è finita nel cestino della carta straccia a causa di #MeToo. E, diverse donne hanno scritto (un esempio è questo di Jia Tolentino dal New Yorker), quel che colpisce è proprio l’incapacità di capire, cercare, fare dieci passi indietro, immaginare perché il loro modo di interpretare il proprio ascendente o potere possa si faccia abuso, esercizio arbitrario dell’autorità, ricatto nelle relazioni con l’altro sesso (nel 99% dei casi parliamo di maschi nel ruolo del cattivo).
L’articolo pubblicato dalla NYRB non era un granché. Non aggiungeva nulla, non toglieva nulla, non era nemmeno una lettura particolarmente avvincente. E forse non sarebbe stato il caso di pubblicarlo. Dunque Buruma ha commesso un errore. Forse grave. L’errore successivo è stato concedere una intervista a Slate. In questa, l’ex direttore di NYRB difende il suo operato e spiega dicendo: “volevo indagare l'esperienza di essere ai vertici, essere uno che può fare più o meno quello che vuole, compreso comportarsi come uno stronzo, e poi ritrovarti rovinato, diventare un cattivo messo alla berlina. Ci interessa cosa pensano figure note finite male per come si sono comportate quando molte altre per qualche secolo non sono state sfiorate? Forse non in questi termini […] Non sto parlando di stupratori. Sto parlando di persone che si sono comportate male durante degli incontri sessuali, abusando del loro potere in un modo o nell’altro. La domanda è come dovrebbero essere puniti?”.
Quel che ha fatto infuriare molti è probabilmente il tono glaciale di Buruma, l’assenza di empatia, di coinvolgimento per un tema forte, che coinvolge, a ragione, sempre lo stomaco, oltre al cervello. Quanto dolore si arreca alle vittime riportate sul proscenio mediatico dopo che per denunciare erano passate sotto la lente di ingrandimento di un tribunale e delle televisioni (e dei social media)? Forse questa è una domanda che Buruma, pensando alla vita futura dell’abusatore di turno, non si è posto. Per capire questo atteggiamento da osservatore neutro forse andrà raccontato Buruma. E per capire il licenziamento, andranno raccontate la NYRB e il suo pubblico. Il libro forse più famoso del giornalista e professore olandese è “Murder in Amsterdam” e racconta da ogni punto di vista possibile la vicenda dell’assassinio di Theo Van Gogh, forse il primo grande caso europeo di scontro di civiltà tra Occidente e immigrati di seconda generazione, forse la prima scintilla mediatica che ha fatto crescere la destra xenofoba europea ai livelli che conosciamo. Quel libro è, appunto, un racconto senza fronzoli, con mille punti di osservazione (compreso quello dell’assassino) e una riflessione costante su cosa determini gli accadimenti. Ma sempre con uno sguardo gelido, chissà se dovuto al mix dell’incontro tra cultura nord europea e profonda conoscenza della cultura giapponese e asiatica (tanto per cadere in un luogo comune).
La “New York Review of Books”, che Buruma dirigeva da più o meno un anno, è invece una rivista di autorevolezza immane, dalla circolazione costante ma relativa (130 mila abbonati, che non sono scesi in questi anni di digitale) e anche piuttosto di sinistra. A comprarla sono i professori di humanities e scienze sociali, i ricchi liberal di New York e tutte quelle élite le cui teste, Trump e una parte dei suoi elettori, vedrebbero volentieri appese come monito sul muro al confine con il Messico (se e quando l’amministrazione in carica poserà un mattone). Quelle élite liberal tendono spesso a usare toni sopra le righe, infiammarsi e infuriarsi per grandi questioni etiche (un po’ meno per il funzionamento di un’economia che concede ad alcuni di loro di essere schifosamente ricchi). In questa fase storica la società americana è attraversata da conflitti furibondi e l’opinione pubblica di sinistra, e ancora di più le donne, vedono come il fumo negli occhi il presidente anche per quel che rappresenta in materia di potere maschile. Sono tempi di toni accesi ed esagerati e, nel caso delle donne, questa rabbia trova giustificazione nel fatto che in troppi, nelle stanze del potere, tendano a derubricare, chiedere di passare oltre, riammettere i cattivi nel consesso umano. O non tollerano l’idea che proprio quel cattivo, quello che a loro piaceva così tanto (Woody Allen, il senatore Al Franken, Kevin Spacey, Louis CK) e che non si è comportato come Harvey Weinstein o altri stupratori/ricattatori seriali vengano banditi per sempre. Il problema, forse, sta nel percorso da fare prima di tornare in pubblico: hai parlato di quel che è successo? Lo hai capito? Hai fatto qualcosa per riparare proprio a partire dal fatto che sei una figura pubblica? O semplicemente ti sei ritirato in casa per un periodo per poi ripartire come se nulla fosse accaduto?
I giovani americani, da Bush in poi, sono cresciuti in un contesto in cui ciascuna cosa è nera o rossa, fantastica o il male assoluto. E l’uso della propria forza o potere per ottenere sesso sono tra quelle cose che chiunque, anche chi scrive, definirebbe il male assoluto. Nell’intervista a Slate, Buruma racconta che nella redazione c’è stato uno scontro e che le divisioni non erano tra i sessi, ma tra generazioni. Non sappiamo se sia proprio così, ma si spiega. Così come si spiega il timore della proprietà di perdere la pubblicità di alcune grandi università.
I giovani e molte donne e la proprietà del giornale non hanno perdonato a Buruma quel suo tirarsi fuori, comportarsi come un medico che pratica un’autopsia. E Buruma ha commesso un grande errore di valutazione: se dirigi un giornale devi sapere in che mondo vivi. Tanto più che i tuoi articoli e le cose che fai pubblicare parlano proprio di un mondo diviso, incapace di parlarsi e arrabbiato (nonché di #MeToo, di Trump, di Stormy Daniels). E proprio l’onda lunga dell’assassinio di Theo Van Gogh raccontata in Murder in Amsterdam è un esempio di come le società reagiscano. Non saperlo è sbagliato. Ma forse è anche sbagliato far dimettere un direttore per questo errore. #MeToo ha avuto e ha un significato enorme e i cambiamenti culturali e sociali (la fine di certi comportamenti ignobili, lo stigma per questi) passano anche per momenti traumatici. E Buruma è figlio di una generazione che forse trova al contempo riprovevole e normale che alcune cose capitino. Ma far cadere sempre e comunque le teste di chi sbaglia può essere pericoloso: la furia iconoclasta brucia anche cose che non lo meritano.
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