Dopo il recente episodio di panico in piazza San Carlo a Torino, i giornalisti si sono rivolti agli psicologi in cerca di spiegazione e di indicazioni pratiche: che cos'è il panico? Che cosa si deve fare in caso di panico di massa? Gli psicologi hanno risposto più o meno in questo modo: occorre mantenere la calma, non smarrire la razionalità, cercare di capire che cosa sta accadendo e comportarsi nel modo più sensato al fine di non essere travolti. Già. Peccato che il panico si caratterizzi appunto per la scomparsa subitanea di ogni calma e razionalità, per l'incapacità di comprendere e giudicare, di agire con saggezza, opportunità, cautela. Il panico travolge tutta l'impalcatura del giudizio che normalmente ci accompagna. Quando la paura è di molti, è possibile solo fare quel che fanno gli altri: senza esitare, senza riflettere.
La risposta degli psicologi mi ha fatto pensare; indica il mancato riconoscimento del fenomeno che è al centro dell'episodio di piazza San Carlo: la folla. Che cos'è una folla? Quali sono le sue dinamiche? Quali sono i pericoli connessi al suo comportamento? Un terreno apparentemente sconosciuto. Mi sono anche chiesta quali possono essere i motivi di questa ignoranza. Forse l'assenza della folla dalla scena pubblica. Forse, invece, la difficoltà di riconoscere questo soggetto sociale e le dinamiche che si svolgono al suo interno. E, nel caso che si trattasse non di una scomparsa dell'oggetto-folla, ma di un imbarazzo negli occhi di chi osserva, a che cosa dobbiamo attribuire tale difficoltà? Tento una risposta, anche se è probabile che essa debba essere accompagnata da altre spiegazioni.
Lo studio della folla un tempo era praticato da quella disciplina che si chiamava psicologia collettiva. La psicologia collettiva (un nome per tutti: Gustave Le Bon) nasce e muore nell'ultimo quarto dell'Ottocento. Prende in esame le folle della rivolta, dello sciopero, del linciaggio. Considera il Parlamento una folla. È accaduto a un certo punto (che si colloca tra fine Ottocento e primi anni del Novecento) che la psicologia collettiva sia uscita dal novero delle discipline scientifiche, praticabili, accettate. Da allora, chi usa la psicologia collettiva è ritenuto un reazionario che impiega strumenti desueti e screditati dalle scienze politiche e sociali. In seguito, salvo eccezioni (di grande rilievo, come Elias Canetti, Hermann Broch o Serge Moscovici, ma pur sempre eccezioni), il soggetto sociale folla è stato sottoposto a critica e spezzettato nelle sue componenti ovvero reinterpretato in base ad altre categorie: così, al posto di un soggetto collettivo che si comporta in modo unanime, si sono analizzati gli individui che lo compongono, da soli o in gruppo, e lo si è fatto in base a classificazioni che al posto del concetto di folla fanno ricorso a concetti come classe, status, località, etnia, genere, appartenenza religiosa, cultura. In questo modo la folla è scomparsa, ed è scomparsa due volte: una prima volta dagli strumenti che gli studiosi utilizzano per studiare i comportamenti sociali; una seconda volta, di conseguenza, dalla realtà. La folla, anche quando esiste e adotta un tipico comportamento collettivo (il panico), come è avvenuto in piazza San Carlo, non esiste: impossibile identificarla, dal momento che non ci sono più gli attrezzi teorici per farlo. Per questa ragione gli psicologi intervistati possono parlare di calma e uso della ragione riferendosi alla folla e a una delle sue manifestazioni più classiche, come la paura senza motivo e la fuga all'impazzata. La psicologia collettiva sapeva che nella folla la razionalità scompare: noi sembriamo ignorarlo. Il caso di Torino, i commenti e le riflessioni a cui ha dato luogo, sono il segno di un sapere sulla folla che un tempo c'era e che oggi non c'è. Si potrebbe osservare che è meglio così: quel sapere (da Taine a Lombroso, da Sighele a Tarde) era fatto solo di pregiudizi nei confronti dell'individuo assembrato con altri, e – in maniera diretta o indiretta – rappresentava una forte critica della democrazia. Credo invece che quel saper fosse molto più ricco (e ambiguo) di così.
I fenomeni legati in vario modo alla folla non sono mai scomparsi, nel tempo che ci separa dalla psicologia collettiva: dai concerti al tifo negli stadi, dalle riunioni religiose (anch'esse portatrici di catastrofi, come accade periodicamente alla Mecca per i pellegrini in visita alla Pietra Nera) alle risse parlamentari, dalle mode che di colpo impongono un prodotto, un abito, un termine, alle credenze che indirizzano in modo univoco l'opinione pubblica, dalla gente che passeggia nelle metropoli grandi e piccole al primo giorno dei saldi, dalle manifestazioni di piazza che degenerano in violenza al teppismo di gruppo contro soggetti inermi. In tutti questi casi, abbiamo persone ragionevoli se prese una per una, folla impazzita se quelle persone si riuniscono. Del resto, possiamo affermare che il comportamento sui social media risponda a regole diverse da quelle del collettivo? Nella realtà e sulla rete, abbiamo gli stessi meccanismi: imitazione, contagio, suggestione, scomparsa della coscienza, abbassamento del senso di responsabilità, diminuzione di razionalità e autocontrollo, guida del comportamento da parte di istinti, affetti, sentimenti, passaggio veloce dal pensiero all'azione. I diversi individui, normalmente autonomi e differenti l'uno dall'altro, diventano simili: diventano uno.
Di fronte a tutto questo, sembra che la nostra conoscenza del fenomeno sia inesistente. Forse, di questi tempi, non sarebbe inutile recuperarla.
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