La crisi economica e l’arrivo in Italia di donne, bambini e giovani uomini in fuga da guerre, conflitti e da condizioni di vita insostenibili nei campi profughi di Paesi di confine hanno modificato profondamente la composizione della povertà italiana. Quest’ultima era costituita in larga misura da famiglie povere con figli minori in cui sono presenti entrambi i genitori, caratterizzate da uno squilibrio tra entrate familiari – redditi da lavoro modesti e discontinui e trasferimenti monetari altrettanto modesti e discontinui – e residenti per due terzi nel Mezzogiorno. Non che questo tipo di povertà vada scomparendo, anzi, essa esce acuita dalla crisi economica e dai processi di arretramento dei sistemi di Welfare, che hanno sottoposto le famiglie italiane a un sovraccarico di aspettative di cura in presenza di una riduzione delle occasioni di lavoro finanche nella economia irregolare. Sono queste le famiglie che sono state in larga parte interessate dai fenomeni di “nuova migrazione”, i quali, come è messo in luce da Monica Santoro nel numero in uscita del “Mulino”, portano con sé il rischio di riprodurre nei Paesi di arrivo le stesse condizioni di povertà, precarietà occupazionale e scarsa protezione dalle quali si era cercato di fuggire. E sono queste stesse famiglie, e soprattutto le giovani coppie, ad aver adottato consumi sempre più parsimoniosi, come documentano due ricerche richiamate nello stesso numero.
Ma accanto a queste forme di povertà più tradizionale, di famiglie che gestiscono bilanci risicati in condizioni abitative disagiate, poco sostenute da politiche di contrasto alla povertà frammentate per categorie e aree territoriali, altre stanno comparendo, coinvolgendo soggetti che scivolano lungo il piano inclinato di una scala sempre più ripida, in cui le distanze sono crescenti, e in cui i meno favoriti sono a grave rischio di marginalità e di povertà cronicizzata. Sono questi soggetti, tra i quali vi sono immigrati di recente e antico arrivo, a essere più spesso oggetto di politiche repressive, di contenimento e di presa di distanza. Tali politiche, alimentate da “retoriche del disumano”, così le chiama Marco Revelli, sono espressione di una regressione dell’etica sociale. E, in una tale regressione, persone che cercano con molte difficoltà di emanciparsi da una condizione di sofferenza e di privazione economica sono considerate pericolose per l’ordine e il “decoro” pubblico. Esse sono ferite nella concretezza della loro vita e delle loro relazioni sociali, e sospinte verso la disperazione e la devianza. Per queste persone, come ha ribadito Chiara Saraceno, “il lavoro non basta”: occorrono politiche mirate di inclusione attiva nel quadro di forme di sostegno al reddito e di creazione di opportunità di formazione capaci di rimettere in gioco chi è stato spinto a bordo campo.
Ma allora una grande questione del nostro tempo gira intorno alla funzione della politica e delle forme di rappresentanza – o della esclusione dalla rappresentanza – poiché dalle sedi in cui questa si manifesta si mostra sempre più difficile operare secondo principi di giustizia sociale condivisi, tanto più necessari, invece, in una condizione di risorse decrescenti. E si deve valutare quanto per contro sia forte la tendenza ad assecondare e a farsi interpreti e moltiplicatori di pulsioni che provengono da una società frammentata e attraversata dalla paura.
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