Questo articolo fa parte dello speciale 20 anni dopo l'11 settembre
Tra le tante eredità che hanno lasciato negli Stati Uniti gli attentati terroristici dell’11 settembre 2001 ci sono anche i problemi psicologici dei militari, costretti oggi a combattere contri i propri fantasmi. Un recente studio di Thomas Howard Suitt della Boston University ha infatti stimato che sono ben 30.177 i soldati statunitensi, in servizio o veterani di guerra, che durante gli anni della «Guerra al terrorismo» hanno deciso di suicidarsi in conseguenza della propria esperienza bellica. Un numero impressionante, se si pensa che gli americani uccisi in battaglia in questi ultimi vent’anni sono stati 7.057. I tassi di incremento dei suicidi sono cresciuti in maniera vertiginosa soprattutto fra i reduci di età compresa tra i 18 e i 34 anni, mentre a fronte di un calo dal 2007 dei militari morti in battaglia il numero di chi si è tolto la vita è continuato a crescere. Secondo un sondaggio del 2020, condotto su circa 1.700 veterani dei conflitti in Afghanistan e in Iraq, ben il 67% conosceva almeno un reduce delle guerre post 11 settembre che avesse tentato il suicidio, mentre il 62% poteva indicarne uno che lo avesse effettivamente messo in atto. Dati rilevanti che mostrano, a parere di Suitt, la parzialità di successo del Pentagono e della società americana nel reintegrare i militari e nell’affrontarne i traumi mentali sviluppati in seguito ai combattimenti.
Dati rilevanti mostrano la parzialità di successo del Pentagono e della società americana nel reintegrare i militari e nell’affrontarne i traumi mentali sviluppati in seguito ai combattimenti
Ogni conflitto ha infatti i suoi lasciti. Già dopo la Prima e la Seconda guerra mondiale i reduci americani avevano mostrato difficoltà nel corso della loro vita civile, avendo sviluppato problemi psichici post-traumatici che li portavano a cali della concentrazione, sbalzi di umore, disturbi del sonno che sfociavano spesso in aggressività e violenza domestica. Tali patologie si sono poi accentuate in una guerra come quella del Vietnam in cui i combattenti americani furono sottoposti a un notevole logoramento psicologico per via della guerriglia condotta dai nordvietnamiti. Si sono infine pesantemente riproposte nel corso della «Guerra al terrorismo», al punto che Hollywood ne ha presto dato conto in film come Nella valle di Elah (2007), The Hurt Locker (2008) e American Sniper (2014), trasposizione cinematografica di Clint Eastwood dell'autobiografia del Navy Seal Chris Kyle. Tutte queste pellicole mostrano una certa difficoltà di riadattamento alla vita quotidiana, un fenomeno che riguarda oggi il 40% dei veterani. Fra questi, i problemi maggiori sono riscontrati da coloro che hanno avuto funzioni di comando, in considerazione della perdita di status e prestigio che avevano invece in uniforme.
Se in tutte le guerre i militari riportano traumi mentali e fisici, come si spiega l’alto tasso di suicidi in particolare nel corso della «Guerra al terrorismo»? Secondo Suitt l’elevata e continuata esposizione in Medio Oriente dei soldati americani a esplosivi rudimentali sarebbe stata un fattore fondamentale per instillare nei militari un senso di costante vulnerabilità e paura, mentre le reiterate detonazioni avrebbero contribuito ad aumentare i loro danni celebrali con inevitabili conseguenze sul comportamento. Una esperienza da cui molti sono passati più di una volta, dal momento che la lunga durata del conflitto e il ridotto numero di soldati ha spinto le forze armate a reimpiegare rapidamente anche chi aveva subito degli shock. I miglioramenti in campo medico hanno infatti permesso che almeno un terzo fra coloro che erano stati precedentemente feriti e che avevano riportato danni celebrali fosse riutilizzato militarmente, salvo cronicizzare con il tempo traumi e dolore fisico che hanno indotto molti a scegliere di togliersi la vita.
Al loro ritorno a casa molti reduci dell’Afghanistan e dell’Iraq hanno poi sofferto la frustrazione dovuta dall’indifferenza di una opinione pubblica ormai disinteressata agli esiti della «War on Terror». Basti pensare che la presenza americana in Iraq ha visto il grado di consenso fra gli americani calare dal 71% nel 2003 al 43% nel 2018. Proprio nel 2018 il 42% degli americani riteneva addirittura che la lotta al terrorismo fosse ormai conclusa e non sapeva della presenza all’estero di truppe americane. Infine, nel 2021, prima della disastrosa presa di Kabul da parte dei Talebani, 7 americani su 10 sostenevano la decisione del presidente Biden di riportare le truppe americane a casa dall’Afghanistan.
L’elevato tasso di suicidi è legato anche a una questione di genere, poiché, dopo l’ingresso delle donne nelle forze armate negli anni Novanta, la violenza nei loro confronti sotto le armi è cresciuta esponenzialmente
Sebbene non necessariamente connesso alle vicende belliche, l’elevato tasso di suicidi è legato anche a una questione di genere, dal momento che, dopo l’ingresso delle donne nelle forze armate statunitensi negli anni Novanta, dall’inizio del XXI secolo la violenza nei loro confronti sotto le armi è cresciuta esponenzialmente. Oggi le donne-soldato costituiscono il 16,5% del totale dei militari e fra queste il 23% subisce casi di molestia o effettiva violenza sessuale da parte dei propri commilitoni, anche se i dati appaiono sottostimati a causa della diffusa tendenza a non denunciare i reati. Vittime di una cultura machista e di regolamenti militari che demandano agli ufficiali la scelta di portare avanti o meno indagini e azioni legali, nel 2020 soltanto in 50 casi su 6.200 (lo 0,8%) queste donne hanno visto condannati i proprio assalitori, i quali in ogni caso raramente vedono la prigione e spesso continuano addirittura la propria carriera militare. Se a questo si aggiungono i frequenti episodi di rappresaglia subiti da chi denuncia, si comprende facilmente come molte non riescano a sostenere il peso della situazione e tentino il suicidio. Intervistate nel 2019 per uno studio del Denver Veterans Affairs Medical Center (realizzato in collaborazione con la University of Utah e la University of Colorado), il 29% di 300 donne-soldato e veterane che ha denunciato di aver subito una tentata violenza ha dichiarato anche di aver pensato al suicidio. In generale, secondo i dati forniti dal dipartimento della Difesa, di tutti i militari che nel 2019 hanno tentato di togliersi la vita mentre erano in servizio il 31% era composto da donne.
A fronte di una rigida opposizione del Pentagono, che teme una delegittimazione dell’autorità e della leadership dei propri ufficiali, da tempo la senatrice democratica di New York Kirsten Gillibrand sta tentando di far passare una legislazione che sottragga ai militari la possibilità di decidere rispetto alla perseguibilità di una serie di crimini, compresi quelli di natura sessuale. Inoltre, sempre per contrastare le violenze, nel gennaio 2021 l’ex presidente Donald J. Trump ha fatto approvare il Deborah Sampson Act, che si pone l’obiettivo di rendere più semplice monitorare, denunciare e affrontare i casi di violenza subita da donne-soldato con la collaborazione degli ambulatori medici del dipartimento degli Affari dei veterani.
In ogni caso, negli ultimi vent’anni il problema dei suicidi dei militari americani è stato un tema molto scottante per tutte le amministrazioni statunitensi, tanto che da George W. Bush fino a Donald J. Trump tutti i presidenti hanno stanziato milioni di dollari per tentare di risolvere il problema.
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