Questo articolo fa parte dello speciale 20 anni dopo l'11 settembre
Ero al secondo anno di liceo. La mia vita era abbastanza routinaria. Ogni giorno uscivo da scuola alle 14 e prendevo un autobus per tornare a casa. Arrivavo alle 14:30, prendevo qualcosa da mangiare e mentre mangiavo chiacchieravo dal telefono fisso in salotto, davanti alla televisione sempre accesa, con la mia amica Flaminia, quella con cui avevo appena trascorso sei ore a scuola, che però non ci erano bastate per raccontarci tutte le cose che si vogliono raccontare due adolescenti di 14 anni. Anche quel giorno fu così. Ci stavamo dedicando a una profonda analisi della giornata, chi si era preso una cotta per chi, quale prof era stato il più antipatico e di che colore si era tinta i capelli quella ragazza del quinto, ignare del fatto che quello che sarebbe successo da lì a poco, precisamente alle 14:46, avrebbe cambiato per sempre le nostre vite. In televisione cominciarono a mandare in onda le immagini in diretta dell’attentato alle Torri Gemelle. Ricordo lì per lì di aver chiesto a Flami dove fossero, perché credevo fossero a Parigi. Conoscevo poco il mondo, non avevo ancora iniziato a girarlo, anche perché quando sei figlia di immigrati, ogni tua vacanza da bambina, la passi a trovare i parenti nel tuo Paese di origine, nel mio caso il Pakistan, il fino a quel momento anonimo Pakistan.
Quando da piccola passeggiavo per le vie di Roma mano nella mano con mia madre in abito tradizionale, ci fermavano sempre per chiederci di dove fossimo. «Che belle che siete. Siete dell’India?» «No, del Pakistan». «E dov’è?» «Vicino all’India». «E allora vedete che avevo ragione io! Siete indiane». E così eravamo indiane. Eravamo «belle». Non eravamo pericolose, non eravamo vittime, non eravamo ancora musulmane. Da quel giorno in poi sarebbe però cambiato tutto. E non solo per me.
Maham non era ancora rientrata dalle sue vacanze in Pakistan. Aveva da poco compiuto i diciotto anni. Nonostante fosse nata a Roma, aveva ottenuto la cittadinanza italiana da soli tre mesi. Finalmente era una cittadina a tutti gli effetti. Finalmente faceva parte di questa comunità, o almeno così credeva. Stava guardando le notizie alla televisione, mentre cercava disperatamente di contattare gli zii che aveva a New York e che lavoravano dentro uno dei grattacieli. «È allora che cominciò questa retorica del noi e del voi», ricorda. «All’inizio non capivo se io ero noi o voi, essendo io italiana, ma anche musulmana. Questo senso di spaesamento, mi portò ad avvicinarmi al movimento Stop the War Coalition. Avevo scoperto di non essere l’unica esclusa da questa dicotomia». Maham iniziò il suo attivismo e le sue battaglie per i diritti di tutti allora. «Avevo la speranza che se ci fossimo uniti per ciò che era giusto, chi era al potere non avrebbe potuto fare a meno di ascoltarci. Vent’anni dopo mi rendo conto che il potere del popolo non riesce a ottenere molto, se non il fatto che la solidarietà mantiene viva la speranza per un futuro migliore».
"È allora che cominciò questa retorica del noi e del voi", ricorda. "All’inizio non capivo se io ero noi o voi, essendo io italiana, ma anche musulmana"
SiMohamed non andava mai in Marocco a settembre, però aveva finito il liceo proprio quella estate e dopo la maturità era partito in vacanza con i suoi amici e la sua ragazza. Decise quindi di posticipare il consueto viaggio per trovare i parenti a settembre. Era a Casablanca con suo zio, seduto a chiacchierare davanti alla televisione. Al Jazeera cominciò a trasmettere la diretta dell’attacco. «Pensavo fosse un film, ma non lo era», ricorda. «La stessa paura che ha colto chi non era di fede musulmana, ha colto anche chi lo era, perché tutto quello che è accaduto ha avuto come vittime persone, al di là del loro credo religioso». Oggi SiMohamed insegna educazione civica, cultura e lingua araba in un liceo di Genova. «Vent’anni dopo è come se i pregiudizi nati nei confronti dei musulmani dopo l’11 settembre si siano cristallizzati nel tempo. Però noi come comunità abbiamo preso coscienza del problema e ci siamo attivati perché l’azione dei singoli non diventi la condanna della maggioranza».
Le immagini della diretta dalle Torri Gemelle interruppero la Melevisione. Fatima aveva 7 anni e si spaventò pensando ci fosse una guerra. Il padre le spiegò che cosa stava succedendo, ma non avrebbe potuto prevedere quello che ne sarebbe seguito. «Da lì in poi andare a scuola divenne un incubo», mi racconta Fatima. «Venivo associata a Bin Laden perché ero musulmana come lui. È da allora che cominciò questa esigenza di doversi dissociare continuamente». Fatima lentamente si ritrovò ad avere sempre più amici figli di immigrati. «Mi aggregavo ai miei simili, allontanandomi sempre di più dagli italianissimi». Oggi Fatima non vive più in Italia, ma ne parla, ne scrive, e si racconta attraverso le sue poesie. «Dopo vent’anni di questa narrazione negativa dei musulmani, sono cambiata nel mio modo di approcciare queste questioni. Non sento più l’esigenza di dover dare spiegazioni e mi fa arrabbiare chi se lo aspetta. Oltre che per quelle degli attentati, mi dispiace per le vittime dei mass media che non sanno guardare oltre ciò che viene proposto».
Yassine oggi è il presidente dell’Unione delle comunità islamiche d’Italia, ma già all’epoca si occupava di associazionismo giovanile tra i musulmani. «Fummo travolti da un’ondata di odio e di islamofobia che riempiva i nostri giornali e telegiornali», mi dice. «Per strada la gente ci guardava con sospetto». Chiunque era visibilmente musulmano, quindi gli uomini con la barba o le ragazze con il velo, venivano presi di mira. «Qualche ragazza rimase anche vittima di aggressioni fisiche. Per non parlare dei controlli negli aeroporti che erano diventati molto più scrupolosi, per noi in particolare. E nelle scuole si continuava a discutere di terrorismo, e il terrorismo, agli occhi del mondo intero, era terrorismo islamico. Ormai esisteva solo quello. E noi musulmani eravamo tutti potenziali terroristi, sia per i media sia per i politici». Secondo Yassine, l’islamofobia ha preso sempre più piede nelle società europee, anche per via dei numerosi attentati terroristici che sono seguiti a quella data. Quello che però lui non accetta è la legittimazione dell’islamofobia da parte delle istituzioni. «Diversi Paesi europei hanno fatto azioni politiche o approvato leggi che vanno a limitare le libertà della comunità islamica. Una singola azione perpetrata da un gruppo di terroristi ha cambiato la vita di un miliardo e mezzo di persone nel mondo. E ne paghiamo ancora il prezzo».
Sumaya era nello studio dentistico di suo suocero, in attesa di suo marito. Vide anche lei le immagini dell’attacco sulla tv, in sala d’attesa. «Da quel momento, noi che viviamo qui abbiamo vissuto il grande peso di dover render conto di qualcosa che ovviamente non era colpa nostra», si sfoga. Sumaya è stata per anni consigliera al Comune di Milano. «È dura, specialmente per le donne che come me indossano il velo. L’opposizione strumentalizza ogni questione, ti accusa di presunti fanatismi e sostiene l’incompatibilità dei valori islamici con quelli occidentali. Ma noi sappiamo che non è così e non ci arrendiamo perché vogliamo essere parte costruttiva e propositiva della società». Oggi Sumaya ha tre figli e tanta speranza. «Ho molta fiducia nelle nuove generazioni. Percepisco un cambiamento di attitudine in loro. Sono più aperti alla pluralità e spero che questo aiuti a creare più ponti per dialogare, e per sentirci parte di una grande comunità e vivere al meglio le nostre vite».
Per Igiaba doveva essere un bel giorno. Era il primo nella redazione della rivista «Latinoamerica». Le cominciarono ad arrivare dei messaggi mentre andava a lavoro. Non capì la gravità della questione finché non vide le immagini. «Prima dell’11 settembre ero stata vittima solo di razzismo e afrofobia per via del colore della mia pelle. Poi si è aggiunta anche l’islamofobia. I controlli massicci nonostante il passaporto italiano, lo scoprire di essere colpevole di tutto». Igiaba oggi è una scrittrice di successo e riflette su cosa le è rimasto di quel giorno. «Più che quella data, rimangono le vittime di quel giorno, le conseguenze e la lettura tossica che ne hanno fatto i media e i politici. Invece di partire da lì per costruire un mondo migliore e combattere gli estremismi di tutti i tipi, si è colpevolizzata un’intera religione e i suoi fedeli. Ancora oggi c’è chi pensa che i musulmani siano la colonna del terrorismo. Io spero che dopo vent’anni saremo più capaci di dialogare, liberare i musulmani da questo stigma e riflettere per non avere mai più attentati e mai più colpevolizzare intere popolazioni».
Dopo l’11 settembre, i media hanno iniziato a occuparsi di più di questioni islamiche, anche se il più delle volte solo per riaffermare gli stereotipi islamofobi già esistenti nella società
Secondo una ricerca condotta dal Pew Research Center, oggi i musulmani in Italia sono circa 2,7 milioni, ovvero il 4,9% della popolazione residente. Eppure, i dati raccolti da Ipsos Mori nella ricerca sui pericoli della percezione, dimostrano che gli italiani sovrastimano la presenza musulmana al 19%. Perché? E perché il 69% degli italiani si dichiara contrario alla presenza dei musulmani nel Paese? Tutto questo è una conseguenza del racconto che è stato fatto di questo gruppo minoritario da parte di media e politici. Dopo l’11 settembre, i media hanno iniziato a occuparsi di più di questioni islamiche, anche se il più delle volte solo per riaffermare gli stereotipi islamofobi già esistenti nella società attraverso una narrazione sensazionalistica e che ha lasciato più spazio a voci e vicende estreme, che alla popolazione comune.
I politici hanno contribuito ad acuire questa situazione presentando l’Islam, i musulmani, ma anche gli stranieri più in generale, come minacce alle tradizioni e alla cultura italiana. Tale retorica ha legittimato in qualche modo l'esclusione e la discriminazione dei musulmani, e li ha resi bersaglio di intolleranza, di incitamento all'odio e persino di crimini.
Vent’anni di questa narrazione non si cancelleranno facilmente, ma prenderne consapevolezza oggi è una nostra responsabilità e un passo in più verso una società rispettosa dell’individuo, che sappia vedere nella diversità, anche religiosa, una ricchezza, e non un pericolo.
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