«Tutti sapevamo che questo poteva accadere. Abbiamo parlato di questa possibilità per anni, ma ora che la tragedia ha colpito è molto peggio di quanto chiunque abbia immaginato. […] Non abbiamo precedenti per ciò che è accaduto oggi, e le conseguenze di questo attacco saranno senza dubbio terribili. Più violenza, più morti, più dolore per tutti. E così in fin dei conti comincia il Ventunesimo Secolo». Con queste parole si conclude un breve scritto redatto da Paul Auster nella notte tra l’11 e il 12 settembre del 2001. Lo scrittore vive a Brooklyn, e nella città ha ambientato i romanzi brevi raccolti nella Trilogia di New York, uno dei suoi libri più celebrati. Una giornata iniziata con lieve apprensione per un traguardo famigliare (il primo viaggio in metropolitana da sola della figlia quattordicenne per recarsi a scuola) si chiude nell’angoscia per un futuro minaccioso. In mezzo c’è la paura (la linea della metropolitana passava sotto il World Trade Center), il sollievo (la ragazza è sana e salva, ma non può rientrare perché le comunicazioni sono interrotte) e lo sgomento crescente, mano a mano che le proporzioni del disastro, chiaramente intuibili dal terrazzo di casa (il fumo, l’odore acre di distruzione e morte), vengono quantificate dai reportage televisivi. Nelle ore e nei giorni che seguiranno, mentre le tessere del mosaico cominciano a trovare la propria collocazione (chi? come? e soprattutto, perché?) diversi intellettuali in tutto il mondo provano a fare i conti con l’accaduto, consegnando le proprie riflessioni a quotidiani e riviste. John Updike, Oriana Fallaci, Amitav Ghosh, Jonathan Franzen, Susan Sontag e tanti altri fanno ciò che è naturale per donne e uomini di lettere: scrivere, tentare di esprimere i propri sentimenti e di dare forma compiuta alle proprie reazioni attraverso un discorso. In alcuni casi a prevalere è la dimensione personale (Ghosh racconta del proprio vicino di casa, uno dei responsabili della sicurezza del Wtc, morto nell’attacco; Franzen cerca di immaginare l’orrore provato dai passeggeri dei voli prima dello schianto), in altri è la dimensione pubblica (Fallaci e Sontag, in modi diversi, danno da subito un senso politico ai propri scritti).

Nelle ore e nei giorni che seguiranno, mentre le tessere del mosaico cominciano a trovare la propria collocazione (chi? come? e soprattutto, perché?) diversi intellettuali in tutto il mondo provano a fare i conti con l’accaduto

Nei venti anni che sono trascorsi da allora, negli Stati Uniti sono stati pubblicati diversi romanzi che ruotano intorno all’esperienza di quei giorni. Alcuni, come Falling Man (2007) di Don De Lillo, tra i maggiori scrittori statunitensi contemporanei, affrontano direttamente il tema, mettendo al centro della narrazione persone coinvolte nell’attentato (uno dei terroristi e un sopravvissuto). Altri, come Extremely Loud & Incredibly Close (2006) di Jonathan Safran Foer o The Emperors Children (2006) di Claire Messud, sono piuttosto tentativi di descrivere l’impatto della tragedia su persone che sono state toccate indirettamente – le famiglie, gli amici – esplorando la zona grigia tra prima e dopo. Perché su una cosa sembra esserci un consenso più o meno unanime: l’attacco alle Torri Gemelle può essere considerato una sorta di spartiacque, il momento in cui le grandi trasformazioni economiche e sociali del post ‘89 raggiungono una sorta di «punto critico». «Nel giro di due ore – come ha scritto Jonathan Franzen – ci siamo lasciati alle spalle l’era felice dell’economia del Game Boy e delle case di lusso e siamo entrati in un mondo di paura e vendetta».

Quasi un anno dopo l’attacco alle Torri, Paul Auster ritorna sul tema che aveva affrontato nelle sue «random notes» scritte al termine di quella lunga, terribile giornata: «Lo scorso 11 settembre è stato uno dei giorni peggiori della storia americana, ma l’orrendo cataclisma che è accaduto quella mattina è stato anche un’occasione per una profonda riflessione, un tempo per tutti noi per fermarci a esaminare chi eravamo e in cosa crediamo». Lo scrittore descrive gli incontri con i lettori avuti dopo l’attentato, e le domande che questi si facevano: «Stavano riconsiderando i valori del nostro Paese, cercando di capire cosa distingue noi dalle persone che ci hanno attaccato». La parola «democrazia» è quella che viene più spesso pronunciata in queste conversazioni. Eppure, c’è qualcosa che non torna. Chi sono i «noi» cui allude Auster? Newyorkesi, bostoniani, persone che partecipano agli eventi letterari cui accenna nel suo articolo. Qualche riga dopo il nodo viene al pettine. Quelle stesse persone non apprezzano il modo in cui il presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, ha reagito agli attacchi: «Lui e il suo gabinetto non hanno incoraggiato un dibattito aperto sulle questioni che il Paese deve affrontare. Con i discorsi sull’imminente invasione dell’Iraq che circolano sugli organi di stampa un crescente numero di newyorkesi sta diventando apprensivo. Dal punto di vista di Ground Zero si ha l’impressione che ci stiamo avvicinando a una catastrofe globale». Per i newyorkesi, afferma Auster, Bush non è abbastanza democratico. Rileggendo queste pagine viene da chiedersi a nome di chi parli Auster. A dispetto del titolo scelto per il suo intervento, Nyc = Usa, si affaccia il dubbio che la situazione dell’opinione pubblica statunitense sia molto diversa, e che a rappresentarne gli orientamenti sia invece il presidente, che sin dall’inizio inquadra l’attacco come un «atto di guerra».

Che la scelta di questo modo di descrivere l’attacco alle Torri Gemelle non fosse obbligata, e certamente non neutrale, viene denunciato immediatamente da Susan Sontag, che scrive un breve intervento per il «Newyorker» in cui si scaglia contro il modo in cui l’amministrazione Bush, e buona parte dei media, hanno affrontato l’emergenza sul piano della comunicazione pubblica. Sontag vede nel ricorso all’immagine della guerra un tentativo di negare la realtà, di distogliere l’opinione pubblica da tutte le domande che avrebbe dovuto farsi: «Questa non è stata una Pearl Harbor. C’è molto da pensare, e probabilmente qualcuno lo sta facendo, a Washington e altrove, sul colossale fallimento dello spionaggio e del controspionaggio americano, sul futuro della politica americana in Medio Oriente, e su ciò che è indispensabile per un sistema sensato di difesa militare. Ma chiaramente i nostri leader – chi ha un ufficio pubblico, chi aspira ad averlo, chi lo ha avuto in passato – con la complicità volontaria dei principali media, hanno deciso che non si può chiedere al pubblico di sopportare il peso della realtà». Per aver scritto questo intervento, Sontag fu sottoposta ad attacchi violentissimi da parte di giornalisti e politici. Accuse di complicità «oggettiva» con gli attentatori e con Saddam Hussein, che da subito venne individuato come un nemico da abbattere, anche se non c’era, e non è emersa in seguito, alcuna connessione significativa tra gli attentatori e il leader iracheno. In altri interventi scritti nei mesi seguenti, Sontag è ritornata in modo più articolato sulle critiche formulate nel settembre 2001. La sua non era una posizione «pacifista». Non negava infatti la necessità di usare la forza contro i terroristi, ma sosteneva che il modo più appropriato di farlo fosse attraverso le tecniche dell’antiterrorismo, e non imbarcandosi in una serie di campagne militari (prima in Afghanistan, poi in Iraq) che sarebbero risultate alla fine controproducenti per gli interessi degli Stati Uniti e per l’equilibrio politico del Medio Oriente. Isolata, derisa, inascoltata, la sua voce risuona oggi come quella di Cassandra.

Sontag vede nel ricorso all’immagine della guerra un tentativo di negare la realtà, di distogliere l’opinione pubblica da tutte le domande che avrebbe dovuto farsi

Uno degli aspetti più interessanti degli interventi di Susan Sontag è la critica di ciò che chiama l’uso metaforico di «guerra» nell’espressione «guerra al terrorismo»: «Le guerre reali non sono metafore. E le guerre reali hanno un inizio e una fine». La guerra al terrorismo non aveva questo carattere delimitato, ma venne sempre più presentata come uno scontro tra due civiltà, due modi di pensare, persino due religioni (aprendo un vaso di Pandora che ancora oggi fatichiamo a richiudere). A prendere il sopravvento fu uno schema modellato su quello della propaganda anticomunista ai tempi della «Guerra fredda». Liberali come Paul Berman, e conservatori come Roger Scruton furono sostanzialmente unanimi nel dare copertura intellettuale a questo modo di inquadrare le diverse iniziative militari che videro un impegno massiccio di risorse militari degli Stati Uniti di alcuni alleati all’inizio del decennio. Anche l’Italia fece, nei limiti delle proprie capacità, la sua parte.

Soddisfatti che la guerra al terrorismo fosse «giusta» pochi prestarono attenzione alle obiezioni di Sontag, oppure alle riflessioni di Michael Walzer (che pure non era contrario alla guerra), che proprio dopo le invasioni di Afghanistan e Iraq ha cominciato a richiamare l’attenzione sullo «ius post bellum», ovvero sulle obbligazioni dei vincitori dopo che un nemico è stato sconfitto. Quanto poco sia stato fatto da questo punto di vista, e con quale efficacia, è risultato evidente nei giorni scorsi dalle drammatiche immagini del ritiro delle forze armate statunitensi da Kabul. Nel corso degli ultimi venti anni la guerra iniziata nel 2001 è andata avanti, in parte ha cambiato metodi (diventando più «umana» ci dicono i suoi apologeti), ma non ha ancora un chiaro obiettivo. Travolti dalla terribile necessità della guerra, come scriveva Simone Weil, i combattenti hanno perso di vista lo scopo del conflitto, finendo per perdere la capacità di pensare a mettere fine alla guerra.

L’equilibrio politico su cui si reggeva il consenso neoliberale degli anni Novanta mostra, dopo l’11 settembre del 2001, per la prima volta crepe che nei mesi e negli anni successivi si allargheranno fino diventare linee di frattura. Aggravate da risposte politiche sbagliate, queste lesioni superficiali nel corso degli anni diventeranno sempre più evidenti, tanto da modificare il panorama delle nostre società, sia sul piano interno sia su quello, sempre meno distinguibile dal primo, delle relazioni internazionali. Molti si chiedono se a essere in pericolo sia ormai la stabilità dell’edificio stesso, i pilastri morali su cui si regge una democrazia liberale. Riflettere sui nostri errori di allora è indispensabile se vogliamo comprendere le cause remote di ciò che sta accadendo oggi. Qualche anno dopo l’attacco alle Torri Gemelle, Paul Auster ha scritto un romanzo, Man in the Dark (2008), che riletto alla luce delle vicende che hanno accompagnato la presidenza Trump acquisisce il senso di un’inquietante profezia: la guerra non è altrove, ma nelle città e nelle strade degli Stati Uniti, è una guerra civile che divide in due il Paese. Due secoli fa Shelley scriveva che i poeti sono «the unacknowledged legislators of the world». Non sono sicuro che oggi si possa condividere ancora questa affermazione, ma sono convinto che dovremmo prestare maggiore attenzione a quello che scrivono i poeti.