Questo articolo fa parte dello speciale 20 anni dopo l'11 settembre
Il ritorno dei Talebani al potere 20 anni dopo essere stati rovesciati dall’intervento statunitense del 2001 solleva ancora una volta la questione della giustizia: del peso che ha l’impunità dei crimini perpetrati nei passati regimi, del costo che la popolazione paga e del ruolo che la società può avere.
Siamo al settimo cambio di regime, l’ennesima transizione politica in meno di cinque decenni, tra colpi di Stato, invasioni e insurrezioni, da monarchia a emirato islamico, passando per repubblica democratica (comunista) e repubblica islamica. Dal 1978 il Paese attraversa una condizione di eterna guerra interna: è stato invaso da due superpotenze e occupato militarmente per tre decenni. Quando le varie fazioni di insorti non erano impegnate a combattere gli invasori stranieri hanno cominciato a farsi la guerra a vicenda in lunghi periodi di guerra «incivile».
Ogni fase del conflitto ha lasciato dietro di sé macerie e sofferenze, che si sono via via accumulate, stratificate nelle biografie dei sopravvissuti, nella memoria di generazioni che non hanno conosciuto altro che guerra. Eppure, per quanto possa apparire strano, considerando come l’Afghanistan sia stato investito negli anni dall’aspirazione di plasmare un ordine internazionale fondato su diritti fondamentali e libero dal terrore, i conti con le atrocità di massa e le violazioni dei diritti umani perpetrate sul suolo afghano non sono mai stati fatti seriamente durante i diversi periodi di transizione e di trapasso fra regime e regime.
Anche le più pressanti richieste di portare i responsabili davanti alla giustizia sono state, nel migliore dei casi, tranquillamente spazzate sotto il tappeto. Peggio ancora, molti carnefici sono stati acclamati come eroi nazionali e incorporati nelle strutture di potere, gettando sale sulle ferite delle vittime di guerra. Come l’impunità potesse diventare legge è diventato paradossalmente evidente dopo il crollo del regime talebano, nel 2001: in quel frangente si presentò un’opportunità per spezzare le lunghe catene di impunità, le longeve figure di potenti criminali di guerra, sotto il cui peso il nuovo ordine politico avrebbe penato ad assestarsi. L’occasione non venne colta: molti dei comandanti mujaheddin e dei signori della guerra che si erano radicati e ingrassati sotto i regimi precedenti, sono stati legittimati nell'amministrazione provvisoria di Hamid Karzai, sostenuta dagli Stati Uniti (2002-2004), altri sono successivamente graziati, finendo nei governi o in Parlamento (2004-2021). Così, vent’anni dopo, l'Afghanistan si trova all'inizio di un’altra transizione piena di incognite, con un ulteriore strato di crimini giustapposto a quelli precedenti. Non c’è motivo per pensare che tali crimini non resteranno senza risposta anche questa volta, mentre chi li ha perpetrati troverà occasioni di riposizionamento e margini per ottenere credito politico anche sotto l’Emirato Islamico.
Vent’anni dopo, l'Afghanistan si trova all'inizio di un’altra transizione piena di incognite, con un ulteriore strato di crimini giustapposto a quelli precedenti. Non c’è motivo per pensare che tali crimini non resteranno senza risposta anche questa volta
La sequenza di conflitti armati ha imposto un pesante tributo ai civili afgani. Con oltre un milione di morti, 1,3 milioni di disabili e decine di migliaia di sparizioni forzate, il Paese ha una delle più grandi popolazioni di sfollati interni (quasi quattro milioni) e una delle diaspore più vaste (quasi sei milioni) al mondo. Considerando i decenni di violenze sui civili, non sorprende che il 70% della popolazione si definisca vittima di guerra. L’elenco è lungo: esecuzioni sommarie, sparizioni forzate, imprigionamento e gravi torture, stupri, distruzione di proprietà private e pubbliche, e così via. Fra i carnefici si trovano i detentori del potere di diversi regimi, a partire dal colpo di stato del 1978 del regime sostenuto dai sovietici. Oltre agli attori interni, anche le potenze esterne come l'Urss (1979-1989) e gli Stati Uniti e le forze della coalizione (2001-2021) hanno commesso crimini e violazioni dei diritti umani, tanto direttamente quanto per omissione e negligenza, il più delle volte consistente nel sostenere attivamente forze locali impegnate in tali crimini senza prestare attenzione ai loro precedenti in termini di gravi violazioni dei diritti fondamentali. Il pesante prezzo pagato dai civili afgani non è quindi un semplice «danno collaterale», per tornare alle definizioni usate dai portavoce occidentali (gli stessi che negli anni più duri della guerra al terrore in Afghanistan e Iraq, quanto alle domande sulle vittime civili rispondevano we don’t do bodycount). Si tratta a tutti gli effetti di crimini di guerra e crimini contro l'umanità punibili secondo le leggi umanitarie internazionali e i meccanismi di giustizia dei diritti umani. La parata militare dello scorso 2 settembre a Kabul, durante la quale i Talebani hanno esibito giubbotti da kamikaze e ordigni esplosivi improvvisati al servizio del restaurato Emirato Islamico, è un amaro promemoria per i civili afgani di come l'impunità e la violenza possano trasformarsi non solo nella legge del Paese, ma anche nell’orgoglio di un gruppo.
Memoria, violenza e identità hanno micce lunghe: le vittime della guerra non dimenticheranno mai ciò che è successo ai loro cari e continueranno a cercare giustizia. In tal senso per chi voglia un Afghanistan stabile e in pace (i candidati non abbondano), non c’è alternativa all’imperativo di spezzare il ciclo della violenza e di impunità. In un conflitto estremamente complesso, formato da vari strati storici sovrapposti e fra loro intrecciati, questo è senza dubbio un compito arduo, ma non impossibile. Se è vero che molte domande rimangono senza risposta, alcuni suggerimenti possono essere proposti. I Talebani hanno dichiarato che non ci saranno ritorsioni nei confronti dei collaboratori del passato regime e delle forze armate straniere. Non credano con questo di assolvere se stessi. Le stragi commesse, le migliaia di vite falciate o menomate dalle loro bombe nelle strade, piazze, scuole e moschee del Paese non consentono né amnesia né amnistia, e lo stesso va detto rispetto al terrore dei bombardamenti e dei droni sulla popolazione civile, sui matrimoni, sugli ospedali.
Le vittime della guerra non dimenticheranno mai ciò che è successo ai loro cari e continueranno a cercare giustizia. In tal senso per chi voglia un Afghanistan stabile e in pace (i candidati non abbondano), non c’è alternativa all’imperativo di spezzare il ciclo della violenza e di impunità
Nessuno dei crimini legati alla contro-insorgenza su cui Wikileaks ha gettato luce in questi anni ha visto giustizia, nemmeno quelli più gratuiti. Può oggi un Paese la cui storia è intrecciata con quella del jihadismo globale, posto sotto la guida suprema di un magistrato di osservanza hanafita come l’emiro-comandante dei credenti Hibatullah Akhundzada, fare i conti con il proprio passato sanguinoso? L’emiro, che in questa fase sembra prediligere l’ombra all’esposizione pubblica e mediatica, e una parte dell’élite talebana, hanno cercato di far passare messaggi di disciplinamento da parte delle corti islamiche rispetto agli eccessi dei propri combattenti. Tuttavia, oggi il clan Haqqani, accusato dei peggiori massacri, controlla il ministero degli interni e la sicurezza nella capitale. Gli equilibri politici e militari in Afghanistan sono estremamente fragili, e non è possibile in questo momento immaginare una via verso la conciliazione fondata sull’acquisizione della verità e la legge.
La società afgana può però, per parte sua, serbare la memoria dei meccanismi locali di risoluzione di dispute e conflitti noti come Shura o Jirga (consiglio o assemblea), molto simili alle corti Gacaca sperimentate in Ruanda dopo il genocidio, e insistere nel chiedere una certa misura di riconoscimento e, in ultimo, giustizia quale presupposto verso la riconciliazione nazionale. Al centro devono essere poste iniziative che danno la parola alle vittime, gestite attraverso pratiche di giustizia riparativa (ad esempio, i circoli di pacificazione). Se le condizioni lo consentiranno, a seconda della traiettoria dei futuri accordi politici, potrà essere considerata l’utilità di un meccanismo di giustizia di transizione più formale, che metta enfasi sul vaglio dei candidati a cariche pubbliche, risarcimenti alle vittime di guerra, assunzione di responsabilità e riconciliazione. Iniziative simili hanno funzionato, anche se non sempre con pieno successo, come misure quasi standard in molti contesti post-conflitto, anche in paesi islamici come il Marocco. I meccanismi di giustizia internazionale, per parte loro, possono giocare un ruolo importante. I crimini di guerra e i crimini contro l'umanità commessi dalle forze armate straniere negli ultimi vent’anni in Afghanistan devono essere indagati o nei loro Paesi – come sta facendo coraggiosamente l'Australia – o da meccanismi di giustizia internazionale come la Corte penale internazionale (Icc). Oltre ad individuare le responsabilità individuali, è importante arrivare a forme di riparazione complete, efficaci e rapide delle vittime.
Come sopravviverà la società? Con l'improvviso crollo del governo retto da Ashraf Ghani, la già indigente popolazione dell'Afghanistan sta attraversando una crisi umanitaria che non può che aggravarsi con l’arrivo dell’inverno. Secondo il Sigar (l’ispettorato speciale d’indagine del parlamento statunitense sulla guerra in Afghanistan), anche prima che il governo se la squagliasse, ovvero al 30 luglio, circa 12,2 milioni di afghani – circa un terzo della popolazione stimata – affrontava una crisi d’insicurezza alimentare. Oggi metà della popolazione ha bisogno di assistenza umanitaria: una condizione che è causata dalla chiusura delle banche e dei sistemi di trasferimento di denaro, combinata con la crisi pandemica, gli effetti della perdurante siccità e lo spostamento di interi segmenti di popolazione davanti alle offensive militari.
I principali donatori, come la Banca Mondiale, hanno tagliato i canali di finanziamento, il che ha gravemente colpito settori quali l'assistenza sanitaria, spingendo gli operatori sanitari alla protesta. Considerando che negli ultimi due decenni l'economia dell'Afghanistan è dipesa fortemente dai finanziamenti dei donatori – l’assistenza internazionale copriva tre quarti del bilancio statale, con vagoni di dollari in arrivo a cadenza periodica – non è per nulla chiaro come l’economia potrà sostenersi sotto il dominio talebano.
Nel frattempo, la leadership talebana, come già durante il proprio primo periodo di governo nella gli anni novanta, ha più volte insistito per costruire relazioni diplomatiche con il mondo, cercando di riattivare i flussi di assistenza finanziaria. Da questo punto di vista, l’arrivo di fondi cinesi può rivelarsi un’arma a doppio taglio per il regime talebano, dal momento che solitamente le condizioni del credito cinese mal si acconciano con i dettami circa il credito della giurisprudenza hanafita. Una scelta decisa di allineamento sull’asse Cina-Pakistan, con silenzio sui crimini commessi contro gli Uiguri, ed enfasi invece sulla causa dei musulmani nel Kashmir indiano, può esporre l’Emirato a contraddizioni e nuove tensioni regionali.
Per quanto il trasferimento a Doha dell’ambasciata italiana segnala la volontà di tenere un filo di dialogo (ad esempio, circa futuri espatri), appare abbastanza chiaro come l'assistenza internazionale – o almeno quella occidentale – rimarrà probabilmente condizionata dal comportamento dei Talebani verso i diritti delle donne e altre conquiste del popolo afgano degli ultimi due decenni.
I diritti delle donne, infatti, sono stati la questione più controversa da quando sono iniziati i negoziati formali con i Talebani, infine decollati nel 2018 in Qatar dopo molte false partenze. L'empowerment delle donne afghane è stato salutato da più parti come uno dei «successi» dell’intervento internazionale, un successo tale da giustificare persino l’invasione statunitense. È quindi comprensibile che molte donne afgane si siano sentite completamente tradite, quando gli Stati Uniti hanno firmato l'accordo con il mullah Baradar a Doha, nel febbraio 2020, accordo che ha spianato la strada per il ritorno al potere degli inturbanati. Solo alcune forze progressiste, come il partito Hambastagi (Solidarietà), hanno affermato fin dall’inizio che una forza d’invasione non potrà mai essere una forza liberatrice. Se la situazione di oggi dimostra drammaticamente la fondatezza della posizione di Hambastagi, due decenni non sono passati invano. Il popolo e le donne dell'Afghanistan non sono più gli stessi. Figli di una fase diversa e di diverse opportunità, i talebani possono essere o non essere cambiati, ma la società afgana è cambiata, come dimostrano le proteste di coraggiose donne afgane nelle strade di Herat, Kabul Mazar-i-Sharif per dire che non torneranno indietro, in condizioni di reclusione. In un contesto che per gli afghani che si trovano tanto fuori quanto dentro il Paese è segnato da disperazione e ansia, questo gesto proietta un raggio di speranza. Tuttavia, a ben guardare i fatti che già emergono, a voler essere molto ottimisti l’Afghanistan diventerà un’altra Arabia Saudita per le donne. Verosimilmente si prepara un sistema di stretta segregazione con sporadiche concessioni. Già l'Associazione delle università private e degli istituti di istruzione superiore, sotto la pressione e la richiesta dei talebani, ha emesso un decreto che afferma che le donne possono perseguire l'istruzione superiore a condizione che siano completamente coperte dall’hejab islamico (il niqab interamente nero, «stile Golfo») e che studino separatamente dagli uomini.
Due decenni non sono passati invano. Il popolo e le donne dell'Afghanistan non sono più gli stessi. Figli di una fase diversa e di diverse opportunità, i talebani possono essere o non essere cambiati, ma la società afgana è cambiata, come dimostrano le proteste di coraggiose donne afgane nelle strade
Negli ultimi vent’anni, l’Afghanistan urbano ha visto crescere una società civile articolata, nutrita da media liberi, risultando a questo riguarda come uno dei più aperti della regione. Soprattutto, le donne avevano una rappresentanza colorata nello spazio pubblico, nello spazio dell’arte, nei media e nello sport. La presenza delle donne nel cinema è stata particolarmente degna di nota: molti registi afgani di fama sono donne, e hanno ricevuto premi e riconoscimenti internazionali. Fondato nel 1964, l’Afghan Film ha nominato per la prima volta una donna, Sahraa Karimi, come direttore. Questo spazio pubblico e civico ora non c'è più. Molti di coloro che erano impegnati nella società civile e nei media hanno lasciato il paese dopo l'annuncio di Biden del ritiro delle truppe americane e, soprattutto, durante le evacuazioni di massa nella seconda metà di agosto, andando a confluire nell’enorme diaspora afghana nel mondo.
La diaspora di profughi afgani, la seconda più grande dopo quella siriana, può svolgere un ruolo importante, aspirare ad essere gli occhi e le orecchie rispetto agli sviluppi all’interno del Paese, dove i media liberi non esistono più, e dove persino gli apparati di intelligence hanno perso le loro fonti. Attraverso contatti regolari con la famiglia e gli amici all'interno del paese, essi sono in grado di ottenere informazioni aggiornate sulla vita quotidiana, e possono trasmettere queste informazioni al mondo. Sarà compito dei giornalisti e analisti aggiungere il necessario rigore, verificando ed incrociando le fonti.
Attualmente, i social media come Facebook e Twitter non sono ancora vietati in Afghanistan. Come tali, rimangono ancora un importante canale di comunicazione. Tuttavia, molti individui precedentemente attivi sulle piattaforme dei social media mantengono un basso profilo o si disimpegnano del tutto, temendo per la propria vita e per quella delle loro famiglie. Il ruolo della diaspora afghana, quindi, diventa sempre più importante, in particolare tenendo conto del recente esodo di oltre 100.000 afghani, tra i quali la gran parte sono professionisti istruiti, e fra loro un numero significativo di giornalisti esperti e ben connessi. Questa circostanza è ben catturata da Bilal Sarwary, un noto giornalista, con oltre 200.000 follower su Twitter: «Se non possiamo tornare indietro, non significa che rinunceremo all'Afghanistan. Lavoreremo sull'Afghanistan da ovunque ci troviamo... La connettività globale è la nuova normalità».
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