Si è molto parlato dell’intervento tenuto da Greta Thunberg dal palco della conferenza Youth4climate di Milano di fine settembre. Potremmo chiamarlo «il discorso del bla bla bla»: «Non c’è un pianeta B, né un pianeta bla, bla, bla, bla… Questo è tutto quel che sentiamo dai nostri cosiddetti “leader”. Parole, parole bellissime, che non hanno portato sinora ad azioni. […] Sono trent’anni di bla bla, ormai, e questo dove ci ha portato? […] Invitano i giovani come noi a queste conferenze e fanno finta di ascoltarci. Ma non è vero, non è affatto vero: non l’hanno mai fatto. […] Non possiamo più lasciare che le persone al potere decidano che cosa è politicamente possibile o no. Non possiamo più lasciare che le persone al potere decidano che cosa possiamo sperare. La speranza non è passiva, non è bla bla bla. La speranza è dire la verità, è agire. E la speranza viene sempre dal popolo».

Mi pare che queste parole possano essere considerate un buon punto di partenza per ragionare sul progetto e sulla visione politica che i movimenti per la giustizia climatica presuppongono. Innanzitutto, il discorso di Greta Thunberg esprime in maniera insistita ed evidente una contrapposizione e una tesi tipicamente populiste – il contrasto fra la gente e i leader e l’idea che solo dal popolo provengano orizzonti progressivi di apertura politica. Inoltre, boccia del tutto la politica del clima degli ultimi trent’anni, considerandola un insuccesso sostanziale, almeno nei termini degli esiti pratici (solo parole, niente azioni). Infine, c’è una tesi sulla rappresentanza: le élite non rappresentano i giovani (fanno solo finta di ascoltare).

Il discorso di Greta Thunberg esprime in maniera insistita ed evidente una contrapposizione e una tesi tipicamente populiste – il contrasto fra la gente e i leader e l’idea che solo dal popolo provengano orizzonti progressivi di apertura politica

Geoff Mann e Joel Wainwright (in Il nuovo Leviatano. Una filosofia politica del cambiamento climatico, trad. it. Treccani, 2019) elencano quattro modelli di politica nell’epoca del cambiamento climatico. C’è una forma di sovranità planetaria liberale e capitalistica: Mann e Wainwright chiamano questo regime il Leviatano climatico e lo identificano con i negoziati, i trattati, il diritto internazionale vigente e la politica mainstream. Secondo loro, il Leviatano climatico è lo stratagemma usato dal capitalismo liberale per sopravvivere al cambiamento climatico senza rinunciare allo sviluppo e ai privilegi di classe. La controparte autoritaria, o più autoritaria, del Leviatano climatico è il Mao climatico, cioè una forma di sovranità planetaria autenticamente dirigista, che si arroga il diritto di decidere come garantire la sopravvivenza del pianeta e dell’umanità, imponendo la decisione in maniera non democratica. Queste due forme di politica climatica suscitano un movimento di reazione – chiamato Behemoth, con allusione ancora una volta a Thomas Hobbes. La reazione al Leviatano, sostengono Mann e Wainwright, può prendere una forma conservatrice, che contesta la scienza e la politica del clima e corrisponde al negazionismo, alle resistenze sovraniste e nazionaliste alle politiche ecologiche mainstream, ma esiste anche in una versione democratica, rivoluzionaria, anti-statalista – la X climatica, che s’incarna nei movimenti della giustizia climatica e avrebbe l’obiettivo di sostituire alla sovranità planetaria imposta dall’alto del Leviatano e del Mao una partecipazione dal basso, una democrazia ispirata ai modelli delle popolazioni indigene che rivendicano identità diverse e una differente relazione con la natura, sulla base dei loro saperi tradizionali.

Greta Thunberg (o chi le scrive i discorsi e ne gestisce l’immagine) probabilmente adotta una versione moderata della X climatica. Ma le sue parole ne mettono in luce alcuni aspetti problematici, che la sofisticata trattazione di Mann e Wainwright edulcora e (forse volutamente) nasconde. Per esempio, i movimenti dal basso sono sempre a rischio di deriva populista – e d’altra parte una difesa da sinistra del populismo esiste (si veda E. Laclau, La ragione populista, trad. it. Roma - Bari, 2008). Peraltro, non si capisce – non si capisce ne Il nuovo Leviatano e non si capisce nelle parole di Greta Thunberg – che relazione ci sia fra critica del capitalismo e critica della sovranità tradizionale. Se, di fatto, l’insorgere di un certo modello di sovranità è coevo al sorgere dell’economia capitalista, non è affatto detto che le due cose siano destinate a stare insieme, tanto è vero che il Mao è non capitalista, ma è una forma di sovranità tradizionale.

Inoltre, nel discorso di Thunberg c’è un accenno prezioso alla rappresentanza, che costituisce una contraddizione rivelatrice: da un lato critica il potere politico per la sua inazione e vi contrappone la gente, ma dall’altro non intende sostituirsi ai politici: denuncia piuttosto la mancata rappresentanza dei giovani e delle loro istanze. (Una cosa curiosa è la retorica giovanilista di Thunberg. È vero che i giovani sono più interessati all’ambiente e più esposti alle conseguenze pericolose del cambiamento climatico. Ma si tratta di conseguenze a breve termine e non delle più dannose. Le vere vittime degli impatti più gravosi del cambiamento climatico non sono ancora nate).

L’attivismo di Greta Thunberg, non c’è dubbio, ha rappresentato un salutare scossone alla cecità che ha caratterizzato la discussione pubblica nei primi anni del XXI secolo. Ma presuppone una concezione tradizionale della rappresentanza

L’attivismo di Greta Thunberg, non c’è dubbio, ha rappresentato un salutare scossone alla cecità che ha caratterizzato la discussione pubblica nei primi anni del XXI secolo. Ma presuppone una concezione tradizionale della rappresentanza. Il problema del Leviatano climatico, per Greta Thunberg, non è che esso aspira a una sorta di sovranità planetaria, ma che tale sovranità non rappresenta pienamente tutti, perché trascura i giovani e le generazioni future. Questa tesi è condivisibile e molto meno rivoluzionaria di quanto si creda. Ma essa spiega anche i fallimenti che Thunberg denuncia: la rappresentanza vera è anche rappresentanza di interessi contrapposti e probabilmente la timidezza di certe politiche rappresenta benissimo l’apatia e la mancanza di consapevolezza di molti di noi. Il Leviatano climatico rappresenta anche gli anziani, i lavoratori delle industrie tradizionali, i consumatori pigri e cerca di bilanciare i loro interessi con quelli dei giovani, delle generazioni future e dell’ambiente. Può darsi che questi ultimi siano una maggioranza trascurata. Ma gli interessi di anziani e settori tradizionali dell’economia non sono certo trascurabili.

Per alcuni, per gestire le sfide del cambiamento climatico occorrono più democrazia e una democrazia migliore – una democrazia non statuale e senza sovranità dall’alto, come nei movimenti per la giustizia climatica, o una democrazia tradizionalmente liberale, come nel Leviatano. Eppure, non è così evidente che la soluzione ai problemi ambientali passi solo per le vie democratiche. Quando in ballo ci sono specie che si possono estinguere, il futuro non tanto di singoli o di gruppi, ma della specie umana, la forma del pianeta, quando alcuni effetti della nostra azione sono già irreversibili e altri si proiettano nei secoli futuri, non è detto che l’unica via non sia assumere dei valori – prendersi per esempio il compito di conservare certi ecosistemi, certe specie, certi stili di vita – e considerare tali valori del tutto indiscutibili, come i principi basilari di certe costituzioni rigide. Non è detto che la via obbligata non sia uscire dalla negoziazione degli interessi e prendere la via dell’adesione a certi valori. Tutto questo somiglia molto di più al dirigismo del Mao climatico, o a una forma standard di liberalismo, che a una democrazia dal basso. La rivoluzionaria Thunberg, con il suo piccolo attacco all’intermediazione e alla rappresentanza, è forse più mainstream di quanto si possa pensare.