"La fede nei miracoli deve essere resa ultimamente irrilevante attraverso la religione morale, perché si palesa un imperdonabile grado di miscredenza morale, se non si vuole accordare alle norme del dovere, che sono originariamente inscritte nel cuore dell'uomo attraverso la ragione, nessun'altra autorità se essa non viene ulteriormente convalidata dal miracolo" (I. Kant).
Eppure, nonostante se stesso, Kant può anche fare miracoli – almeno questa è la sensazione che mi trascino dietro da quando, ieri pomeriggio, ho terminato la mia lezione di Etica all'università. Perché, ammettiamolo, abbiamo finito per trasformare le nostre università, uno dei patrimoni più alti dello spirito europeo (dalla Bologna dell'XI secolo alla Berlino di Humboldt), in qualcosa che le ha snaturate alla radice. Se per un attimo smettessimo di mentire a noi stessi, e riemergessimo dalla convulsione della burocrazia e del reperimento di finanziamenti esterni che soffoca il nostro essere lì per insegnare, ci accorgeremmo che i ragazzi non vengono più all'università per imparare. Li abbiamo trasformati, cuccioli imberbi di un'Europa senza più gusto del sapere, in agenzie di frequentazione di moduli astrusi e produzione meccanica di esami: numeri anonimi delle nostre performance accademiche. Senza accorgerci che senza discepoli anche la figura del maestro diventa futile, sbiadita e, da ultimo, non ha più alcuna ragion d'essere.
Un po' tutti affascinati e ammaliati dal gioco perverso del rating e del ranking, abbiamo ridotto la perla preziosa dello spirito europeo, il sapere, a quantità calcolabile in equazione; svendendolo, infine, alle logiche del mercato. Perché nella quantificazione del sapere, a scuola e all'università, si può lucrare un bel gruzzolo. Qualcuno inizia ad accorgersi delle conseguenze, non proprio auspicabili, insite nel piegare apprendimento e insegnamento alla classifica; perché, così facendo, "si distoglie l'attenzione da obiettivi formativi meno misurabili, o incommensurabili, come lo sviluppo fisico, morale, civico e artistico; restringendo pericolosamente la nostra immaginazione collettiva a riguardo di cosa sia e debba essere l'educazione" (Open Letter To Andreas Schleicher, Ocse, Paris). Ma anche quando raggiungiamo questo grado di consapevolezza, rimaniamo sostanzialmente inerti; la macchina sta sbranando i suoi stessi ingranaggi.
E chi mai avrebbe potuto immaginarsi che proprio il filosofo di Könisberg potesse offrirci una qualche miracolosa ancora di salvezza – per sfuggire, almeno per un attimo, al risucchio impietoso di questa deriva. Non riesco, infatti, a scrollarmi di dosso la sensazione lasciatami dalla lezione pomeridiana sulla Grundlegung zur Metaphysik der Sitten. Con la ciurma colorata dei miei studenti, così impastati della nostra spappolata contemporaneità, che fa loro sentire il ragionamento di Kant come qualcosa che proviene da un pianeta talmente lontano da non riuscire neanche a sembrare virtuale. Eppure, come d'incanto, eccoli lì a dismettere l'ossessione per l'esame, impegnati a cercare di capire come questo viaggio fantastico nelle eteree e asettiche regioni della ragion pratica (certo, ancora solo in nuce) potesse essere qualcosa che valesse la pena di un qualche apprendimento. Quasi teneri nelle loro domande, che cercavano di ricondurre l'imperativo categorico a un qualcosa che potesse dare dignità, ma sì diciamolo, morale alla loro impresa di vivere.
Per un attimo, l'emergere del desiderio di essere lì anche per imparare, capire, per apprendere i rudimenti di una vita che non vuole essere solo consumata. Abbandonare al suo destino questo desiderio di imparare in nome del sapere (e basta, per dirla con Kant), vorrebbe dire dichiarare chiusa una volta per tutte l'avventura dell'accademia europea dei saperi; e noi saremmo la generazione ricordata per averne, così freneticamente e stoltamente, preso definitivo congedo.
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